Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
In base alle notizie di stampa, pare che un vincitore sul campo in Libia vi sia. Il capo delle forze armate del governo di Tobruk,
il generale Haftar, avrebbe posto sotto assedio Bengasi e messo alle strette le milizie islamiche che i nostri media presentano tout court come ISIS. L’iniziativa militare del pur ambiguo Haftar starebbe quindi scongiurando il pericolo di una dissoluzione della Libia.
Se la notizia è attendibile, molte delle motivazioni, sia ufficiali che mediatiche, addotte a favore dell’intervento italiano in Libia risulterebbero superate dai fatti. O no? In realtà la vera motivazione di un massiccio intervento occidentale potrebbe essere proprio quella opposta, cioè prevenire ed impedire una stabilizzazione della Libia.
Sempre in base a notizie di stampa, Haftar, oltre ad aver incassato il sostegno dell’Egitto, e quindi indirettamente della Russia, avrebbe ottenuto
il favore del governo francese, che addirittura sosterrebbe le operazioni militari dello stesso Haftar con azioni di commando. Ma sarà vero? Non è che il governo francese sta salendo sul carro del probabile vincitore solo per pugnalarlo più agevolmente alla schiena?
Oltre che reparti francesi, agiscono in Libia anche formazioni statunitensi e britanniche, ed anche quelle in presunta funzione anti-ISIS. Gli Stati Uniti avrebbero effettuato anche i
soliti bombardamenti contro “postazioni dello Stato Islamico”.
Da parte degli Stati Uniti provengono anche le più pressanti richieste al governo italiano di inviare un corpo di spedizione in Libia, qualcosa come tremila o cinquemila uomini, ovviamente tanto per cominciare. Quel che è certo è che, a differenza del 2011, in Italia tendono a crescere le posizioni contrarie alla guerra, con interventi anche ad alto livello. Dopo l’articolata posizione contraria di Romano Prodi, alla quale anche altri politici si sono accodati, anche il quotidiano confindustriale “Il Sole-24 ore” ha dato spazio lunedì scorso ad un articolo non solo fortemente critico nei confronti di ogni ipotesi di intervento militare italiano, ma anche propenso a toccare
il vero nodo della questione, cioè le mire di spartizione della Libia.
D’altra parte, anche
l’intervento di Prodi, apparentemente così deciso, non risulta del tutto esente da ambiguità, poiché rivolge la propria critica esclusivamente verso la Francia ed il Regno Unito, lasciando fuori dalla polemica proprio chi vorrebbe “invitarci” a rientrare nel pantano libico, cioè gli USA.
Se oggi l’establishment italiano dà ampio spazio a posizioni contrarie alla guerra, martedì scorso sul “Corriere della Sera” il commentatore ultra-ufficiale Angelo Panebianco ha rivolto
un’esortazione agli Europei a guardare con apprensione alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, auspicando che non risulti vincitore un altro candidato “isolazionista” come Obama. Panebianco rivolge le sue speranze ad una vittoria di Hillary Clinton, la più adatta, secondo lui, a scongiurare la prospettiva di un’Europa lasciata in balia di Putin. Ovviamente il possibile risorgere dell’isolazionismo americano è una fiaba; non solo l’isolazionismo statunitense costituisce un mito storiografico senza pezze d’appoggio, ma le ingerenze di Kerry in questi anni sono state addirittura plateali, dalla questione ucraina a quella greca. Persino l’euro dal 2012 sopravvive soltanto in funzione degli interessi della NATO, cioè di Washington, che non vuole che un allentamento della disciplina europea possa mettere in forse le sanzioni alla Russia; sanzioni che provocano effetti depressivi non solo sull’economia russa, ma soprattutto sull’economia europea. Ma è chiaro che Panebianco con questi richiami fiabeschi al “pericolo” di un isolazionismo americano vuol solo richiamare tutti all’obbedienza nei confronti del grande ed insostituibile “alleato”- padrone.
Il punto è che ogni discussione concreta e puntuale sull’eventuale intervento italiano in Libia può essere spiazzata da un momento all’altro da qualche offensiva mediatica che ci ponga davanti a qualche “emergenza umanitaria” a cui far fronte. Il copione ormai lo conosciamo, ma il guaio è che funziona sempre. Alcuni commentatori si sorprendono del fatto che in questo momento sia assente il movimento pacifista, ma forse il pacifismo era assente anche quando sembrava esserci. Non ha senso infatti opporsi ad una guerra senza demistificare di volta in volta le false emergenze che la giustificano.
A differenza dei toni trionfali di Renzi del febbraio dello scorso anno, che avrebbero dovuto anticipare un apposito decreto da varare a marzo, ma mai apparso, ora il Presidente del Consiglio appare smarrito e chiuso in un imbarazzato mutismo, e se la va a prendere proprio con quei media che pure non fanno altro che battere la grancassa per lui.
Qualcuno ha notato che i due ostaggi in Libia sono stati uccisi quando l’intervento italiano si presentava come imminente, mentre gli altri due sono stati liberati allorché l’ipotesi di intervento sembrava essere stata messa da parte. Dopo i roboanti ultimatum lanciati da Renzi durante l’ultimo incontro bilaterale con Hollande, altri avvisi di quel genere potrebbero arrivargli. Evidentemente Renzi si trova schiacciato dagli opposti timori di un’avventura militare che si annuncia militarmente e finanziariamente disastrosa, e la prospettiva che arrivi un ordine di intervento da parte degli USA, al quale non avrebbe il coraggio, né la forza, per opporsi.
Le elezioni presidenziali americane costituiscono una di quelle circostanze nelle quali l’opinione pubblica europea non riesce a fare a meno di appassionarsi e, persino, di suggestionarsi.
Il “caso” mediatico delle attuali primarie presidenziali negli USA è rappresentato da un candidato repubblicano, il miliardario Donald Trump, speculatore immobiliare e divo televisivo, pervenuto agli onori delle cronache per le sue posizioni “islamofobe”. In base ai punti di vista, Trump viene percepito come un “pericolo” o come una “speranza”, senza peraltro preoccuparsi di sostanziare più di tanto queste percezioni.
Da un osservatorio europeo è difficile valutare se e quanto siano pilotate, o enfatizzate, le manifestazioni di giubilo o di ostilità suscitate da Trump. Si dice che dietro le manifestazioni ostili vi sia la mano di un altro miliardario, altrettanto famoso, o famigerato, George Soros. Quel che è certo, è che Soros ha dichiarato apertamente la sua
avversione verso Trump, accusandolo di lavorare indirettamente per l’ISIS.
Abbiamo quindi da un parte un miliardario reazionario e, dall’altra, un miliardario “progressista” che si confrontano sull’arena mondiale, come a dire che solo un miliardario può contrastarne un altro e fare la differenza.
Nella società attuale la super-ricchezza ha assunto quasi una valenza mistica e i miliardari sono i nuovi santi. Il miliardario è una figura che emana un alone di potenza personale e di spregiudicata libertà di azione, come se i soldi non fossero la risultante degli intrecci di potere e di lobbying in cui sono coinvolti e da cui sono controllati.
Soros è l’uomo che alla fine degli anni ‘80 spese un fiume di denaro per finanziare le “rivoluzioni colorate” nell’Europa dell’Est, e che si presentò poi a riscuotere il conto nel 1992 dai contribuenti britannici e italiani, speculando sulla sterlina e sulla lira: una sorta di riscossione di una tassa per finanziare l’anticomunismo.
Soros è notoriamente un collaboratore della CIA che agisce per conto di quel potentato sia sui mercati finanziari che sugli scenari di politica estera; ma non si comprende perché invece i miliardi di Trump dovrebbero avere una provenienza trasparente, dato che dire grosso business significa quasi sempre dire servizi segreti. Neppure si capisce per quale motivo il contrasto Soros-Trump non debba essere catalogato come il solito gioco delle parti finalizzato ad offrire al pubblico alternative fasulle, in questo caso con quale miliardario schierarsi.
Con la vicenda del Buffone di Arcore anche in Italia abbiamo assistito all’euforia delle “destre antagoniste”, pronte a bersi senza pudori la fiaba del miliardario anti-sistema, del “cavaliere libero e selvaggio” in guerra con l’establishment.
In parte la drammatizzazione artificiosa dello scontro delle candidature presidenziali americane corrisponde a delle ovvie necessità di propaganda elettorale. Hillary Clinton è una candidata che manifesta troppi tratti di impresentabilità: i suoi sfacciati legami con l’impopolare Goldman Sachs, i suoi evidenti segni di squilibrio mentale, aggravato probabilmente da una qualche forma di tossicodipendenza. Occorreva disperatamente opporle qualcosa di peggio, qualcosa che spingesse i progressisti delusi a compattarsi, magari controvoglia, dietro di lei. Insomma, indurre a votare Clinton turandosi il naso. Da qui la necessità di esagerare la portata del personaggio Trump. Del resto in passato la propaganda repubblicana ha fatto lo stesso, presentando Bill Clinton come un “pacifista” ed Obama come un “socialista”.
A questi aspetti fisiologici dell’artificiosa drammatizzazione elettorale, si sovrappongono però le attese speranzose - oppure, al contrario, i timori e le pose indignate - delle opinioni pubbliche in Europa. La suggestione si alimenta così di dettagli insignificanti: la battuta ammiccante dello stesso Trump sull’11 settembre, oppure la mezza dichiarazione di elogio da parte di Putin nei confronti di Trump. Lo stesso Putin è un personaggio di cui le “destre antagoniste” esagerano la portata. Putin non è certo un fantoccio come Obama e neppure una segretaria d’azienda come la Merkel, ma la sua vera attenzione va agli affari di Gazprom, ed il suo impegno a contrastare l’aggressività della NATO è il minimo indispensabile per non esasperare i militari russi e scongiurare un loro colpo di Stato.
Si vuol vedere a tutti i costi ciò che non c’è; e non si tiene conto del fatto che una comunicazione mistificatoria può anche utilizzare come esca qualche brandello di verità o di buonsenso sparso qua e là. Ma tante mezze verità possono comunque comporre una menzogna intera.
La rappresentazione del mondo offerta da Trump rientra a pieno titolo nel vittimismo occidentalistico, nella fiaba dell’Occidente “troppobuonista” perennemente sotto attacco da parte di terroristi, immigrati e dittatori. Sulle questioni concrete Trump non esibisce infatti alcun anticonformismo, in particolare per ciò che riguarda il rapporto con Israele. Trump continua tranquillamente a fare del terrorismo sul nucleare iraniano, in linea con l’establishment repubblicano. La polemica di Trump con un altro candidato repubblicano, Marco Rubio, è diventata poi
una gara a chi dei due fosse più filo-israeliano.
Le destre europee “antagoniste” e di taglio “anti-americano” fanno entusiasticamente il tifo per Trump e paventano addirittura che sia assassinato. Queste destre dimostrano così la loro persistente dipendenza dalla mitologia USA, compresa l’illusione che la salvezza possa giungere da una nuova leadership americana.
In realtà, quale che sia il presidente degli USA, egli deve muoversi in un percorso già tracciato da lobby molto più potenti di lui, ed è strano che, nonostante le innumerevoli esperienze passate, si debba essere costretti ogni volta a ricordarlo. Il problema è che queste “destre antagoniste” hanno ormai assunto un peso assolutamente sproporzionato rispetto alle loro effettive capacità critiche, ma la responsabilità di ciò è delle cosiddette “sinistre”.
Nella vicenda siriana la denuncia del ruolo imperialistico, destabilizzante e aggressivo della NATO e dei suoi alleati è stata annacquata anche dagli esponenti delle “sinistre radicali”, e ciò solo per il timore di poter apparire favorevoli ad Assad ed a Putin. Non sorprende a questo punto che anche una frasetta di Trump sulla preferibilità di Assad rispetto all’ISIS abbia potuto essere spacciata come una pungente critica alla politica estera USA.
Dato che i dubbi circa la presunta “anomalia” di Trump comunque si fanno strada, da “sinistra” non poteva mancare il cosiddetto argomento “ad Hitlerum”, cioè: attenti a sottovalutare Trump perché anche Hitler a suo tempo fu sottovalutato. Se Hitler fu sottovalutato è ben strano, visto che aveva tentato un colpo di Stato già nel 1923 in Baviera, e che poi si era messo a capo di una formazione paramilitare di assassini professionisti, le SA. C’era, evidentemente, la consegna di sottovalutarlo, allo stesso modo in cui oggi c’è la consegna di sopravvalutare Trump.