Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Poco più di una settimana fa è arrivata una di quelle notizie che i giornali confinano nelle pagine interne, ma che sarebbero invece utili per farsi un quadro realistico dei rapporti di potere in Europa, al di là dei rumori di fondo determinati dalla sedicente "politica" e dal festival degli scandali. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha infatti lanciato la
candidatura dell'attuale direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, la francese Christine Lagarde, per la presidenza della Commissione Europea.
La Merkel in tal modo non si è fatta scrupolo di mettere da parte il candidato ufficiale del Partito Popolare Europeo, Juncker, ed ha riaffermato quella propria dipendenza dal FMI che era risultata evidente già dal 2010, nella gestione della crisi finanziaria della Grecia. Fu infatti la Merkel ad insistere ed ottenere che il FMI venisse coinvolto nel
"salvataggio" della Grecia, ovvero nella gestione del suo debito. In quella occasione la Merkel operò da vera agente e procuratrice d'affari del FMI.
Nacque così la famosa "Troika" composta dalla UE, dalla BCE e, appunto, dal FMI, il quale ufficializzò così il suo ruolo di attore principale sulla scena europea. Tale ruolo dominante del FMI venne poi sancito definitivamente dal trattato istitutivo del
Meccanismo Europeo di Stabilità, ai punti 8,12 e 13 della dichiarazione introduttiva ed all'articolo 38. Al punto 8 (otto) della dichiarazione introduttiva si afferma esplicitamente che la partecipazione del FMI è prevista per ogni aspetto tecnico e finanziario della gestione del MES.
La mitica autonomia della politica economico-finanziaria della Germania nei confronti di Washington si rivelava una fiaba già quattro anni fa. Soltanto una tambureggiante campagna mediatica ha potuto perpetuare l'equivoco del predominio tedesco in Europa.
L'atto di piaggeria della Merkel verso il suo vero padrone, il FMI, però non ha riscosso gli entusiasmi del presidente francese Hollande, il quale ha dichiarato sfacciatamente che non vi è nessun vantaggio per la Francia a perdere una posizione di potere nel FMI, per andare ad occupare una funzione di mera rappresentanza alla presidenza della Commissione Europea. Insomma, meglio secondi a Washington (dove ha sede il FMI) che primi a Bruxelles. Se Bruxelles conta ancora qualcosa, è solo perché vi si trova la sede della NATO. Non a caso, qualche giorno dopo, la stessa
Christine Lagarde ha risposto all'atto di piaggeria della Merkel declinando bruscamente l'offerta di candidatura alla presidenza della Commissione Europea.
Per risolvere l'impasse determinato dalla rinuncia della Lagarde, è spuntato poi nella trattativa il nome di Pascal Lamy, anche lui francese, ed
ex direttore del WTO, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio. Ancora una volta, per dare prestigio alla carica di presidente della Commissione Europea, viene proposto un personaggio legato alle organizzazioni internazionali di marca statunitense, come a ribadire che l'Europa non può fare da sola.
Si discute all'infinito di un'Europa "cattiva" della finanza e del "rigore" e di un'Europa "altra", quella "buona", quella della crescita e degli investimenti, di cui Matteo Renzi dovrebbe diventare il leader. Visto che la Merkel ci ha dimostrato in modo così efficace che l'Europa non è né buona né cattiva, ma semplicemente non esiste, allora una nullità come Renzi ne sarebbe davvero il leader ideale.
La destabilizzazione siriana di marca jihadista è stata esportata in grande stile nel confinante Iraq, il cui governo è ufficialmente appoggiato sia dagli Stati Uniti che dall'Iran. I media ci presentano quindi i due storici nemici, USA ed Iran, costretti a fronteggiare insieme la minaccia dell'integralismo islamico. Sennonché notizie di stampa poste in minore evidenza sembrano sfatare la propaganda dell'ISIS (o ISIL), il gruppo jihadista che sostiene di praticare esclusivamente sane
forme di "autofinanziamento" con rapine in banca ed imposizione di tangenti. I finanziamenti principali proverrebbero infatti dalle petromonarchie del Golfo: Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.
Già da qualche giorno alcuni commenti giornalistici, seppur di stretta marca occidentalistica, avevano posto in evidenza il
"paradosso" costituito dal fatto che a finanziare il jihadismo fossero proprio i principali alleati degli Stati Uniti nell'area, cioè appunto le petromonarchie. Poteva apparire spregiudicato, ma coerente, che il jihadismo venisse usato per destabilizzare la Siria, un Paese storicamente nel mirino degli USA, ma potrebbe apparire contraddittorio che oggi si trovi a far da bersaglio un governo insediato proprio dagli USA come quello dell'Iraq.
Queste perplessità derivano da una concezione idealizzata ed edulcorata dell'imperialismo, al quale spesso si attribuisce, del tutto arbitrariamente, una carica "progettuale", cioè la determinazione di stabilire una qualche forma di "ordine", per quanto ingiusto, sia a livello regionale che globale. Quando si notano certe incongruenze si può sempre spiegare tutto con la stupidità, che ha certamente un ruolo rilevante nelle vicende umane. D'altra parte, proprio perché la stupidità costituisce una costante perenne ed ineliminabile, serve a molto poco per spiegare ciò che accade nello specifico.
I commentatori dell'occidentalismo puro e duro se la prendono poi con la debolezza e l'indeterminazione di Obama, e rimpiangono il "guerriero" Bush. La stupidità potrebbe essere facilmente invocata anche per spiegare questo tipo di assurdi commenti giornalistici, ma così si coglierebbe l'aspetto meno rilevante del problema. La propaganda dei "Neocon" americani consiste per un verso nell'inflazionare l'epiteto di "pacifista", attribuendolo persino a criminali di guerra del calibro di Bill Clinton, e dall'altro verso nel caricare di nuovi sovrasignificati bellicistici cose che rientrano nella routine dell'affarismo militare. Capitò anche con le mitiche "Guerre Stellari" lanciate mediaticamente dal presidente Reagan negli anni '80. In realtà dagli anni '50 il Pentagono già finanziava ed organizzava dispendiose ricerche sull'uso militare dei satelliti, perciò non vi era nulla di nuovo, se non l'enfasi pubblicitaria attribuita a quelle ricerche.
Se si va invece a comparare il grado di destabilizzazione operato nel periodo della presidenza Obama con quello che si è verificato nel corso della presidenza Bush, ci si accorge che la palma dell'imperialismo più aggressivo andrebbe proprio all'understatement di Obama, e non all'enfasi bellicistica di Bush. Ciò, ovviamente, se Obama non fosse soltanto quello che è, cioè un addetto alle pubbliche relazioni; e se questo alternare uno stile più spavaldo ad un altro più dimesso non rientrasse in un normale gioco comunicativo.
Dopo l'irrigidimento delle forze armate russe nel difendere la Siria, il piano di destabilizzazione di questo Paese ha dovuto subire una battuta d'arresto, perciò era ragionevole attendersi che gli USA e le petromonarchie spostassero il fronte sul Paese confinante. Nel caso iracheno gli USA possono consentirsi infatti di riscuotere i vantaggi della destabilizzazione, che va ad investire direttamente anche il ruolo di potenza regionale dell'Iran e la sua influenza sull'attuale Iraq a predominio sciita. Gli USA possono conseguire questo risultato senza peraltro esporsi più di tanto, e senza nemmeno spendere più di tanto, lasciando le spese ed il lavoro sporco agli "alleati", come è già avvenuto per le "primavere" arabe del 2011.
L'imperialismo non ha bisogno di strategia, poiché la destabilizzazione è già di per sé una strategia. Sul cammino di una Russia concentrata sulla questione dell'Ucraina viene oggi lanciata la nuova pietra d'inciampo della destabilizzazione irachena, quindi un nuovo fronte e militare e diplomatico per Putin, dato che dall'Iraq diventa possibile tentare di destabilizzare nuovamente la Siria.
All'opposto della visione idealizzata dell'imperialismo, può anche darsi una sua concezione del tutto unilateralistica, come se l'imperialismo costituisse una sorta di "villain" che va a turbare le paradisiache armonie dei popoli. In realtà la forza dell'imperialismo non sta tanto nella sua potenza intrinseca, quanto nella sua capacità di catalizzare tutti gli affarismi e gli opportunismi a livello locale. In questo senso si può valutare anche la storia dell'Europa dell'Est non soltanto nei suoi aspetti di discontinuità, successivi alla caduta del muro di Berlino, ma anche nei suoi aspetti di continuità rispetto all'epoca del cosiddetto "socialismo reale". Durante la Guerra Fredda, Paesi come la Jugoslavia o la Romania hanno saputo "vendere" la loro posizione di confine tra i due schieramenti, ritagliandosi un ruolo internazionale ed anche una sorta di alibi ideologico. Tito e Ceasescu sono stati celebrati dalla propaganda occidentalistica per decenni, salvo essere criminalizzati dalla stessa propaganda, quando il loro opportunismo non serviva più; post mortem nel caso di Tito, ed ancora in vita nel caso di Ceasescu, sino a plaudire alla sua feroce esecuzione.
La stessa Albania, passata così bruscamente nel campo occidentale, ha un suo passato ambiguo, in cui il marxismo/leninismo/stalinismo apparentemente ortodosso di Enver Hoxha, costituì di fatto un ottimo alibi per ritagliarsi un ruolo di neutralità. Se Hoxha avesse aderito al Patto di Varsavia, la marina militare sovietica avrebbe potuto piazzare basi navali a pochi chilometri dalla base NATO di Taranto, e tutto l'equilibrio militare del Mediterraneo sarebbe mutato. Qualche innocua trasmissione da Radio Tirana fu sufficiente per tutti gli anni '70 ad accreditare alla politica antisovietica di Hoxha una sorta di mitico alone ultra-rivoluzionario, mentre dietro vi erano evidenti compromessi con la NATO.
Non vi è perciò nulla di strano nel fatto che oggi in Ucraina la posizione di confine sia considerata un'opportunità da sfruttare e che fare l'anti-russo sia divenuto un mestiere carico di prospettive di successo e carriera. Ciò che invece risulta strano, è che a Kiev non ci si accorga che attualmente la posizione di confine dell'Ucraina non viene venduta al migliore offerente, ma svenduta a condizioni di strozzinaggio. L'Occidente può permettersi di spacciare il prestito di diciassette miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale al governo ucraino come un "aiuto", quando persino un quotidiano come
"The Guardian" deve riconoscere che il vantaggio di questo prestito va esclusivamente ai creditori.
Questa svendita è appunto l'effetto della destabilizzazione permanente, per la quale ogni Paese è considerato un bersaglio e nessuno può più permettersi di negoziare tranquillamente per ottenere vantaggi dalla propria posizione di neutralità o di alleanza. Per questo motivo la destabilizzazione imperialistica non colpisce soltanto coloro che sono ufficialmente considerati nemici, ma spesso, o soprattutto, i cosiddetti "alleati", come sta capitando adesso anche all'Iraq.