Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La catena dei forzati e lo sguardo pubblico
Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta, malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.
La vettura cellulare e lo sguardo panoptico.
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che “l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837 della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote foderata di latta.
Impenetrabile allo sguardo esterno, sfila triste per le vie senza rivelare nulla di quanto contiene. Gli sventurati che vi montano, siano essi già condannati o in attesa di giudizio, viaggiano sempre in catene, ma ora in piccole celle singole che impediscono non solo di guardare verso l’esterno, ma anche di incontrare lo sguardo degli altri “passeggeri”. Un corridoio centrale permette invece alle guardie di controllare a vista tutti i trasportati attraverso uno sportello.
Così la «Gazette des tribunaux» descrive questo meccanismo di controllo interno: “l’apertura e la direzione obliqua degli sportelli sono combinate in modo che i guardiani tengano incessantemente gli occhi sui prigionieri, ascoltano le minime parole, senza che quelli possano riuscire a vedersi o a sentirsi tra loro”.
Non un semplice carro coperto, dunque, ma un dispositivo tecnico elaborato con obiettivi precisi: nascondere il condannato allo sguardo pubblico, impedire al condannato lo sguardo verso il mondo di fuori, negare lo sguardo complice tra forzati, perfezionare lo sguardo sorvegliante. Non una semplice scatola mobile di latta, ma una “vettura panoptica”, una prigione degli sguardi che annulla i fasti sbeffeggianti delle catene dei forzati e li rende ciechi, silenziosi, invisibili e controllabili.
L’opacità segreta delle prigioni si estende e anticipa il suo arrivo; la sua ombra ingloba il condannato e lo sottrae alla vista prima ancora che lui metta piede nella prigione stessa. Il pudore borghese delle riforme trasporta senza più mostrare come castiga, senza più dare spettacolo. Niente più gioco di sguardi tra popolo e criminale, l’unico sguardo tollerato è quello del guardiano sul penitente recluso.
La videoconferenza e lo sguardo disincarnato
Veniamo all’oggi e all’Italia. L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.
L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.
Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato la legge.
Ne I miserabili, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione. Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice; divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.
La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo “disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo. Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati. La giuria stessa è portata a considerarti così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente designata nei modi di quella tua “presenza”.
In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera. Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.
Conclusioni decantanti
Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara, Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’“ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.
“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.
Mattia Zanotti
dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria,
fine aprile 2014
In base alla parodia del "politically correct" oggi imperante, è assolutamente vietato credere ai complotti, ma è consentito - anzi, caldamente consigliato - di credere alle fiabe. Così all'opinione pubblica è stato narrato in questi giorni di un elettorato talmente spaventato dagli eccessi verbali di un Beppe Grillo in look hitleriano, da correre a rifugiarsi tra le braccia pelose ma rassicuranti di un Matteo Renzi. Alla penna prestigiosa di Eugenio Scalfari è toccato di stilare la versione più "meditata (cioè contorta) della fiaba, ad uso dei lettori più "critici".
Per chi non fosse rimasto comunque soddisfatto dalla versione A della fiaba, ne è arrivata una versione B, ad uso dei lettori più disincantati, a cui piacciono le tinte forti. Si tratta della sempre efficace interpretazione dei fatti in chiave autorazzistica, la cui narrazione è stata affidata stavolta alla sagace dialettica di Dario Fo, reduce dalle campagne militari contro Gheddafi e Assad. Fo ci ha spiegato che il problema consiste in un vizio storico degli Italiani, tanto affascinati dalla menzogna da essere disposti oggi a dar credito persino ad un Renzi.
Sebbene la spiegazione di Fo provenisse da una "voce amica" del Movimento 5 Stelle, Grillo ha rinunciato a ripiegare nel colpanostrismo italico, e si é apparentemente deciso a rompere la gabbia di quel finto "politically correct" che impedirebbe di credere all'esistenza del nemico. Nella giornata di lunedì, infrangendo il clima delle paciose e militaresche celebrazioni del 2 giugno, Grillo ha infatti esplicitamente parlato di brogli ai danni del suo movimento. Lo ha fatto, come sempre, con scarsa lucidità, facendo appello ad un exit poll di provenienza nientemeno che britannica, e perciò da ritenere, chissà perché, più attendibile.
In realtà Grillo non può aver pensato seriamente all'eventualità di un sorpasso ai danni del PD. Soltanto in base ad una concezione idealizzata della democrazia, si può credere che possa risultare determinante il voto d'opinione, mentre invece è sempre il voto controllato a fare la differenza. Da oltre un anno e mezzo era chiaro che quelle baronie del voto, che avevano abbandonato Bersani al suo destino, erano rientrate all'ovile per sostenere la candidatura di Renzi, appoggiata sempre più apertamente dal viceré della NATO in Italia, Giorgio Napolitano.
Ma anche con il rinnovato appoggio dei baroni del voto, rimane comunque il problema di quell'irrealistico 41% raggiunto dal PD alle ultime elezioni, una quota che presupporrebbe che l'astensionismo record abbia intaccato l'elettorato di tutti i partiti, tranne quello del PD. Grillo ha fatto quindi benissimo a non farsi spaventare dagli ovvi confronti con le vittimistiche recriminazioni del Buffone di Arcore nel 2006, ed a denunciare chiaramente l'eventualità di brogli. Sennonché, mentre lo faceva, già ne minimizzava i termini andando a prospettare un'indagine nelle tradizionali sezioni "rosse", prendendosela con gli scrutatori, e proponendone addirittura una schedatura.
I brogli nelle sezioni elettorali sono sempre avvenuti, ma non sono mai stati in grado di spostare i milioni di voti. L'Italia non è come gli Stati Uniti, dove non è mai esistita un'anagrafe elettorale, e quindi del risultato elettorale si è sempre potuto fare ciò che si voleva. In Italia per attuare brogli di grande portata occorre controllare gli archivi elettorali sia al centro che alla periferia, sia al Viminale che nei Comuni. Brogli del genere erano tecnicamente impossibili sino al 2007, anno in cui è stata varata la Legge 124/2007, che all'articolo 13 comma 2 consente ai servizi segreti, sia civili che militari, di accedere a tutti gli archivi informatici delle pubbliche amministrazioni e degli enti che in qualche modo vi collaborino.
Solo controllando tutti gli archivi informatici si possono infatti colmare le discrepanze tra i dati del Viminale e le anagrafi elettorali dei Comuni. Adesso inoltre esistono software capaci di trasformare gli "zero virgola" sparsi in milioni di voti spostati, perciò in Italia i brogli su larga scala sono diventati tecnicamente possibili; e l'esperienza insegna che se una cosa è possibile, prima o poi viene fatta.
Grillo non ha veramente rinunciato a recitare la solita parodia del politically correct, poiché ha puntato il dito esclusivamente contro il PD e contro quei "due di coppe" che sono gli scrutatori, guardandosi bene dal tirare in ballo le responsabilità degli apparati istituzionali. In definitiva, colui che i media fanno passare come il grande destabilizzatore, ancora una volta non se l'è sentita di delegittimare tutto il sistema e di demistificare il mito della "democrazia occidentale". Forse perché ciò avrebbe potuto mettere in questione anche la sorprendente perfomance elettorale del M5S nel 2013, grazie alla quale Napolitano ha potuto mettere fuori gioco Bersani per dare avvio alle irresistibili fortune di Renzi.
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