Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La stampa estera, ed in particolare britannica, ha cominciato da qualche tempo ad occuparsi del nuovo Presidente del Consiglio, non facendosi scappare l'occasione di accostarlo al personaggio televisivo di
Fonzie. La figura da deficiente rimediata da Matteo Renzi con le note fotografie nelle vesti del personaggio della serie "Happy Days", è già diventata, come era prevedibile, il paradigma di un percorso di ridicolizzazione internazionale, che sicuramente non farà rimpiangere le esibizioni del Buffone di Arcore.
Non si può negare comunque che in questo governo qualche accenno di novità vi sia, in particolare per ciò che riguarda il ministro dell'Economia appena nominato, Pier Carlo Padoan. I commentatori ufficiali hanno insistito sul dettaglio che si tratti di persona particolarmente qualificata, data la sua esperienza in organizzazioni internazionali di indiscutibile competenza ed imparzialità, come il Fondo Monetario Internazionale e l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo. Padoan può quindi vantare un prestigioso curriculum da lobbista delle banche, cosa che gli aveva già procurato nel dicembre scorso una nomina a presidente dell'ISTAT. Padoan non ha potuto giurare con gli altri ministri, poiché è stato sorpreso dalla nomina al dicastero dell'Economia mentre si trovava in Australia, a Sidney, che, come tutti sanno, costituisce una sede cruciale per le funzioni dell'ISTAT.
Peccato che i commentatori ufficiali si siano lasciati sfuggire anche l'altra qualifica di Padoan, che lo rende un efficace collaboratore di Renzi, e cioè le sue doti di distrattore. L'ex dirigente del FMI e dell'OCSE è infatti anche un noto
"sostenitore" della patrimoniale. Secondo le dichiarazioni di Padoan, una tassa sui patrimoni consentirebbe di allentare la morsa del fisco sul lavoro. Un ex socialista, attualmente commentatore su giornali di destra, Francesco Forte, ha suggerito che tale passione per la patrimoniale deriverebbe dalla formazione keynesiana di Padoan. Francesco Forte è egli stesso un ex "keynesiano", poiché negli anni '70, quando c'erano ancora l'IRI e le Partecipazioni Statali, fare il "keynesiano" gli rendeva qualcosa.
Con la faccia tosta tipica dei commentatori in forza alla destra, Forte si è dimenticato di spiegare come ci sia arrivato un "keynesiano" a diventare dirigente del FMI e dell'OCSE. Ma tant'è. Ciò che conta è che, grazie a Forte, Padoan parte con l'etichetta mediatica di uomo "di sinistra", di "ministro anti-ricchi", cosa che permetterà alla destra di alzare il polverone di una lotta di classe virtuale tra ceti medi ed operai, con il corollario di infiniti dibattiti televisivi tra sostenitori di Keynes e di Friedman.
Prima ancora di essersi insediato nella sua poltrona, Padoan ha già superato il suo ruolo di tutore e consigliere di Renzi, in quanto insidia il suo pupillo anche nel primato nelle virtù di distrattore. Padoan deve certamente queste sue doti di fumogeno alla sua militanza nei quadri dell'OCSE, un'organizzazione sempre molto attiva nel gettare fumo nel dibattito internazionale. Nel luglio scorso l'OCSE ha persino tracciato un documento ad uso del G-20, una serie di proposte per
impedire l'evasione e l'elusione fiscale da parte delle multinazionali. Per un organismo come l'OCSE, che ha sempre lavorato a favore delle multinazionali, ciò indicherebbe un bel coraggio.
Lo indicherebbe, ovviamente, se nel documento ci fosse qualcosa di concreto, e non la solita solfa sullo sgamatissimo espediente delle società offshore, che, con la loro stessa esistenza rappresentano una sorta di insegna luminosa con la scritta "sto evadendo il fisco". Anche parlare in questi casi di "elusione" fiscale rappresenta un diversivo, poiché vendersi e rivendersi lo stesso bene tra società dello stesso gruppo costituisce, a tutti gli effetti di legge, una frode.
Le multinazionali hanno una pessima reputazione, ma la mitologia che le circonda ce le presenta come organismi super-efficienti, con studi legali composti da volponi capaci di escogitare chissà quali alchimie giuridiche. Al contrario, l'internazionalizzazione di un'azienda non è di per sé un elemento di forza, poiché genera numerose diseconomie; ed anche i movimenti delle multinazionali si basano su schemi sempre scontati e prevedibili. Lo strapotere di questo tipo di imprese si basa non sulla loro efficienza intrinseca, ma sul lobbying, e non tanto su quello palese, bensì su quello occulto, che si esercita proprio attraverso le organizzazioni assistenziali per ricchi, come l'OCSE, il FMI, la Banca Mondiale, l'Unione Europea, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) e, soprattutto, la NATO; tanti precettori che presentano come una sorta di dovere morale l'aprirsi agli "investimenti esteri", cioè alle multinazionali.
Il documento OCSE vorrebbe farci credere che anche per impedire l'evasione fiscale occorra ponzare chissà quali arguzie, quando invece basterebbe non fare alcune cose, come i ciclici provvedimenti per salvare le multinazionali dai tanti procedimenti per frode fiscale. Il governo Letta ne sa qualcosa, dopo il
regalo della riduzione fiscale concessa alla lobby del gioco d'azzardo nel settembre scorso.
Ma queste frodi fiscali, più o meno legalizzate, rappresentano pur sempre un aspetto secondario. L'agitare la questione fiscale serve in definitiva ad alimentare una falsa impressione di "normalità", come se tutto fosse riconducibile ad un problema di sana amministrazione. La destabilizzazione violenta in corso in Siria, in Ucraina ed in Venezuela dovrebbe invece ricordare che la vera questione è il colonialismo. Stranamente è stato
il governatore della Banca d'Italia a mettere in evidenza che l'elemento essenziale per valutare uno come Padoan non è ciò che dice, ma proprio il fatto che provenga da un organismo coloniale come l'OCSE.
Sarebbe lecito chiedersi cosa avremmo saputo dell'attuale situazione in Ucraina nell'epoca pre-internet, quando l'informazione dipendeva ancora per intero dai giornalisti. Oggi siamo venuti a conoscenza del ruolo decisivo svolto dalle formazioni naziste nella "rivolta"/colpo di Stato di Kiev, mentre nell'Ungheria del 1956 di nazisti non v'era alcuna traccia, sebbene le Croci Frecciate ungheresi avessero costituito sino ad undici anni prima il secondo partito nazista per consistenza di massa dopo quello tedesco. Senza internet, un nuovo Indro Montanelli ci narrerebbe forse la "realtà" di una piazza ucraina composta esclusivamente da popolo ed operai assetati di libertà e diritti umani, e tutti noi dovremmo confrontarci con quella "realtà".
Nonostante la inconsueta prudenza di commentatori di solito inflessibilmente occidentalisti, come Barbara Spinelli, altri commentatori invece non hanno rinunciato allo scontato, quanto pretestuoso, paragone fra Putin ed Hitler, presentando l'invasione della Crimea alla stregua di quella dei Sudeti del 1938. Per altri commentatori della destra "antagonista", l'attuale perfomance militare russa ha invece rinfocolato le speranze di un Putin campione della lotta contro l'imperialismo americo-sionista. Questa seconda ipotesi si rivela altrettanto irrealistica della prima, e si basa su una evidente sopravvalutazione del personaggio.
Non che Putin sia paragonabile ai fantocci teleguidati che popolano la scena politica europea. Anzi, Putin si è sempre dimostrato abbastanza "tosto" da riuscire a barcamenarsi tra i due poteri reali che agiscono in Russia: Gazprom e le forze armate. Ciò che manca al personaggio non è né il coraggio fisico, né la collaborazione di ghost writer molto migliori di quelli di Obama, bensì un progetto politico che non si limiti a far coesistere giorno per giorno l'affarismo delle oligarchie commerciali del gas e del petrolio con l'integrità territoriale della Russia.
Si riscopre oggi l'imperialismo russo, ma si tratta di un pleonasmo, dato che la Russia è, per costituzione storica e per esigenza pratica, un impero; e tale ha continuato ad essere anche sotto l'orpello ideologico del socialismo. La Russia attuale appare come un impero ridimensionato e privato delle sue storiche appendici dell'Ucraina, della Bielorussia e della Georgia. La lettura della storia sovietica con il filtro del "vittimacomunismo" ha fatto dimenticare che molte delle etnie che oggi si presentano come oppresse, esprimevano in effetti i massimi livelli della dirigenza politica dell'URSS: Stalin e Beria erano georgiani, mentre Zdanov, Krusciov e Breznev erano ucraini. Fu proprio Krusciov ad assegnare nel 1954 la Crimea russofona alla Repubblica dell'Ucraina, in quella che allora apparve come una redistribuzione in famiglia e che oggi invece è un casus belli.
Il problema dell'attuale imperialismo russo è però ancora quello dell'epoca dell'URSS o dello zarismo, e cioè che si tratta di un "imperialismo debole", che costa in termini militari molto più di quanto renda in termini commerciali. Nell'imperialismo statunitense il militarismo e l'affarismo delle multinazionali sono inestricabilmente intrecciati sotto la direzione di quel grande ministero delle Partecipazioni Statali che è il Pentagono. L'espressione "complesso militare-industriale" è talmente riduttiva da risultare fuorviante, poiché può far credere che si tratti di un aggregato informale e che riguardi solo il settore degli armamenti. Sotto la tutela del Pentagono si articola invece una cordata affaristica che si esprime in ogni settore, e che allarga la sua rete anche tramite la NATO ed i suoi tanti accordi di partnership militare con Paesi esterni al Patto Atlantico; accordi che hanno sempre risvolti affaristici a tutto tondo, compresi i business illegali. La forza attrattiva dell'imperialismo statunitense consiste perciò non solo nella sua potenza intrinseca, ma anche nella sua capacità di coinvolgere e calamitare tutti i gruppi affaristici del pianeta, che riconoscono negli USA il loro alleato naturale, e persino una sorta di ideale razziale. L'imperialismo USA rappresenta quindi una costruzione complessa, in cui l'azione e l'influenza, anche ideologica, dei tantissimi filoamericani risultano determinanti quanto quelle dell'oligarchia statunitense. L'eterno mito del presunto "declino" statunitense serve a mascherare questo dato di fatto.
Al contrario, la debolezza dell'imperialismo russo consiste nel non essere mai riuscito a saldare la funzione commercial-finanziaria con quella militare. La capacità attrattiva dell'imperialismo russo rimane scarsa, persino tra i popoli slavi; ed un certo razzismo anti-russo rientra nel "politically correct" di tutti i ceti intellettuali. Il successo delle manovre militari indette da Putin lo scorso anno è servito a rilanciare anche il business della vendita delle armi russe, ma Gazprom e le forze armate continuano ad esprimere interessi non conciliabili. Mentre i militari russi rivivono oggi i loro antichi giorni di gloria, nello stesso tempo
le quotazioni azionarie di Gazprom crollano, a riprova che sono chiacchiere depistanti quelle dei commentatori che ci presentano un Putin in Ucraina a caccia delle "autostrade del gas".
Ma ciò è una riprova anche del fatto che Putin non ha ceduto a desideri di espansionismo territoriale, ma al pericolo di essere rovesciato da un colpo di Stato militare nel caso avesse abbozzato sull'annessione dell'Ucraina all'Occidente. Si tratta degli stessi timori di colpo di Stato che nel 2008 indussero Putin a consentire ai militari di invadere l'Ossezia.
La penisola di Crimea si trova al centro del Mar Nero. Chi controlla la Crimea, controlla il Mar Nero; e chi controlla il Mar Nero ha accesso a tutta la parte occidentale della Russia. Se le basi militari e navali russe della Crimea cadessero nelle mani della NATO, la Russia semplicemente non esisterebbe più; ed è esattamente ciò che vorrebbero il Dipartimento di Stato USA e le innumerevoli agenzie private di politica estera che operano in nome e per conto dell'imperialismo occidentale, a cominciare da quelle di George Soros.
Per quanto la NATO ci abbia abituato al suo avventurismo criminale, è molto difficile ritenere che avrebbe gestito tutta la vicenda ucraina in un modo così aggressivo e sfacciato, se non avesse contato su qualche "sponda" filoamericana all'interno della oligarchia commerciale russa, cioè tra quegli affaristi di Gazprom che sognano di ritagliarsi in un ex impero russo tante "Arabie Saudite" da gestire in partnership con gli Stati Uniti. Fondata da Gorbaciov, Gazprom divenne la centrale russa della lobby delle privatizzazioni, sino a quando nel 1992 Eltsin riuscì a privatizzarla effettivamente. Nel 2007 Gazprom avviò addirittura una
privatizzazione dell'esercito, ma fu la guerra dell'Ossezia nel 2008 a ridimensionare questo piano, rilanciando il ruolo tradizionale dei militari.
Probabilmente la resa dei conti tra Gazprom e le forze armate russe è appena cominciata, e non è detto che Putin riesca a mantenere il suo ruolo di mediazione.