Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il caso della Corea del Nord sta diventando un'ulteriore dimostrazione del fatto che non esiste un'opposizione al sistema imperialistico statunitense, né nel sedicente Occidente, né nell'ambito dei Paesi cosiddetti emergenti. A tutta la propaganda ufficiale non ha fatto riscontro alcun elemento di critica, persino delle assurdità più evidenti.
Non ci viene infatti spiegato come un Paese che soffrirebbe la fame da oltre sessanta anni, possa avere oltre 24 milioni di abitanti in un territorio che è circa la metà di quello italiano. Nessuno poi nota il ridicolo che questa propaganda sulla fame nella Corea del Nord provenga proprio da chi, per decenni, ha imposto a quel Paese sanzioni economiche sempre più dure. Non ci viene neppure spiegato come sarebbe possibile che una casta militare storicamente consolidata in mezzo secolo di resistenza antimperialistica, come quella nord-coreana, possa prendere ordini da un "dittatore" praticamente implume, e che pare avere più che altro una funzione simbolica di continuità.
Che la Corea del Nord rappresenti il grado più basso nel rispetto dei cosiddetti diritti umani, viene dato per scontato dai media; ma ci si guarda bene dal rilevare che tale giudizio deriva dai rapporti di ONG come Human Rights Watch, che si sono segnalate invece per il loro atteggiamento "comprensivo" nei confronti delle operazioni di
"secret rendition" (sequestro di persona e tortura) della CIA.
Inoltre, la quantità di
manovre militari messe in atto dagli Stati Uniti negli ultimi mesi non viene minimamente collegata all'attuale aumento della paranoia del regime militare nord-coreano, come se questa paranoia fosse dettata unicamente da cause interne. Dal mese di marzo le forze armate statunitensi hanno attuato ben tre sorvoli sulla Corea del Nord con i loro bombardieri B-2, ciò senza contare gli innumerevoli movimenti navali e la dislocazione di nuovi aerei e missili.
Niente di paragonabile per quantità e qualità dell'intimidazione può essere attribuito al regime nord-coreano. Ciononostante, neppure le cosiddette "minacce" del regime nord-coreano sono mai state contestualizzate nell'ambito delle manovre militari congiunte tra Usa e Corea del Sud; manovre che prevedevano anche la
simulazione di un bombardamento nucleare con i soliti B-2. Ovviamente tutti questi movimenti militari statunitensi sarebbero dettati esclusivamente da motivazioni "difensive".
Anche i risultati diplomatici raggiunti dal segretario di Stato USA, John Kerry, nel riuscire a coinvolgere la Cina nell'operazione di isolamento del regime nord-coreano, vengono interpretati esclusivamente come effetto del crescere a livello mondiale della preoccupazione per l'aggressività del dittatore Kim Jong Un; mentre invece l'atteggiamento sempre più remissivo del regime affaristico cinese potrebbe essere riconosciuto proprio come la causa principale dell'aumentata aggressività statunitense. Per la Cina, l'indipendenza della Corea del Nord costituisce un baluardo strategico indispensabile, tale da dover essere sostenuto persino se la propaganda statunitense dicesse il vero circa l'aggressività del regime nord-coreano. La caduta della Corea del Nord in mani statunitensi, significherebbe un passo ulteriore nell'accerchiamento della Cina.
Inoltre, a smentire il mito della purezza ideologica del regime "socialista" della Corea del Nord, questa è diventata da anni una delle maggiori aree di
investimento per gli affaristi cinesi. La storiella del dittatore del tutto incontrollabile anche da parte di Pechino, non si fonda perciò su nessun riscontro concreto.
Eppure il governo cinese esprime tutta la sua determinazione esclusivamente sulla questione tibetana, sebbene il Tibet non costituisca più un'area strategica così irrinunciabile, da quando negli anni '50 sono stati spenti tutti i possibili focolai di resistenza del Kuo Min Tang all'interno del territorio cinese. L'atteggiamento intransigente sul Tibet rappresenta quindi un alibi per il governo cinese, in modo da mettere in ombra la debolezza dimostrata nel caso della Libia, della Siria, ed ora della Corea del Nord.
La prospettiva che il mondo possa essere sull'orlo di una guerra nucleare soltanto per colpa di un "dittatore pazzo", appare tranquillamente come realistica e plausibile agli occhi dell'opinione pubblica mondiale. La propaganda ufficiale non ha bisogno di basarsi su nessun costrutto razionale; anzi, più la narrazione è fiabesca, più risulta efficace. L'esistenza di questi mitici "dittatori" giustifica poi automaticamente ogni aggressione militare degli Stati Uniti; una giustificazione avallata anche da coloro che ritengono di non essere dei filo-americani. Per tutti i commentatori l'unica prospettiva di "ragionevolezza" consiste sempre e soltanto in un totale cedimento del regime nord-coreano; mentre non viene minimamente presa in considerazione l'ipotesi che anche gli Stati Uniti possano intanto cessare i loro sorvoli e le loro esercitazioni nucleari sulla Corea del Nord.
La mistificazione delle "armi di distruzione di massa di Saddam" è già stata archiviata; perciò nessuno più si pone il problema che un'eventuale rinuncia della Corea del Nord al suo programma nucleare non farebbe recedere di un millimetro l'aggressività americana; anzi la farebbe aumentare. Persino Gheddafi aveva rinunciato al suo progetto di armamento chimico e nucleare, e per un po' era stato anche riammesso nel consesso della sedicente "comunità internazionale"; ma poi, per ottenere l'avallo incondizionato alla sua eliminazione, è bastato chiamarlo "tiranno" e "macellaio del suo popolo". Insomma, soltanto coloro che siano in grado di esibire una patente di assoluta perfezione morale potrebbero avere - forse - il diritto di essere esentati dai bombardamenti americani.
Il successo incontrastato e pervasivo - assolutamente trasversale a ideologie e schieramenti -, che incontra a livello mondiale la fiaba del dittatore pazzo, è tale da mettere in crisi le stesse idee di modernità e di progresso civile. Pare proprio che al fondo del sistema sociale mondiale vi sia un nucleo arcaico, primitivo, tribale, che si nutre di mitologie elementari.
Non è necessario fare supposizioni circa la matrice dell'attentato di Boston, per riscontrare che, ancora una volta, il "vile attentato terroristico" ha sortito i suoi immancabili effetti disciplinari sull'opinione pubblica, immediatamente irreggimentata nello schema del "noi e loro". Nell'epoca della presunta società "complessa", e della altrettanto presunta società "liquida", nulla funziona meglio dell'emergenza-terrorismo per semplificare e cristallizzare il quadro di riferimento. La estrema facilità con cui questo può avvenire, costituisce un'obiezione sostanziale nei confronti di qualsiasi illusione di democrazia e di Stato di Diritto.
Le celebrazioni in onore della figura di Margareth Thatcher (forse ammazzata per l'occasione, in modo da riciclarla in operazioni di manipolazione mediatica), hanno anch'esse messo in evidenza quanto sia facile creare un mito. Basta mentire.
Nulla di ciò che viene speso in questo tipo di propaganda svolge una mera funzione celebrativa, ma serve a ribadire degli schemi di pensiero, dei pregiudizi, che soppiantino totalmente i dati di fatto. La famosa vittoria del 1985 del primo ministro Thatcher contro i minatori britannici in sciopero, è stata presentata dai media come una scadenza ineluttabile del progresso contro le resistenze conservatrici del lavoro. Si tratta del solito luogo comune secondo cui gli operai sarebbero sempre a rimorchio della Storia.
A sentire la versione ufficiale, le miniere di carbone avrebbero rappresentato un settore obsoleto e superato a causa del prepotente avvento degli idrocarburi, e andavano chiuse per necessità economica. Insomma, per i minatori britannici si sarebbe ripetuto ciò che avvenne ai Luddisti dei primi dell'800, i quali, secondo il mito storiografico vigente, difendevano un modello di lavoro artigianale contro l'avvento delle macchine. In realtà, in due secoli non è mai stata fornita alcuna prova storica del fatto che i Luddisti distruggessero le macchine per difendere la propria condizione di artigiani. Dai verbali dei loro processi, che si concludevano con immancabili condanne all'impiccagione, risulta semmai che si trattasse di nuovi operai. Ma, a quei tempi, ogni tipo di associazionismo operaio era considerato alla stregua di un reato di cospirazione, ed ogni sciopero trattato come un sabotaggio, con conseguenti condanne a morte; perciò la distruzione delle macchine costituiva allora la sola forma di lotta a disposizione degli operai, l'unica che consentisse di commisurare l'efficacia dei risultati agli enormi rischi connessi.
Nel caso dei minatori britannici degli anni '80, c'è oggi a disposizione addirittura la prova tangibile che il "progresso" non c'entrava niente con la chiusura delle miniere. Infatti, secondo gli stessi
dati ufficiali, la Gran Bretagna nel 2012 ha importato 44,8 milioni di tonnellate di carbone, prevalentemente da Russia, Colombia e Stati Uniti. Insomma, nell'epoca degli idrocarburi e delle energie rinnovabili, il carbone è rimasto fondamentale nella produzione di energia elettrica.
Negli ultimi anni il consumo di carbone nel mondo è aumentato del 55%, e l'Italia ne importa circa 19 milioni di tonnellate all'anno; un'enormità, anche se si tratta di una bazzecola di fronte alle importazioni di carbone nel Regno Unito. Il carbone è il grande "innominabile" dell'economia europea e mondiale, una presenza tremendamente invadente, ma che si può occultare con espedienti elementari come il "basta mentire". L'opinione pubblica infatti viene indotta a credere che il carbone sia un ricordo dell'800; e per questo si convince facilmente della necessità di chiudere impianti minerari come quello del Sulcis in Sardegna, in modo da poter
importare milioni di tonnellate di carbone da USA, Russia e Colombia.
C'è anche un certo ambientalismo che presenta ogni volta l'uso del carbone come un'anomalia locale dei vari Paesi e quindi, indirettamente, rafforza quella falsa idea che il carbone sia generalmente in disuso. Solo in Italia le
centrali elettriche a carbone sono tredici, e niente - ma proprio niente - fa supporre che la dipendenza mondiale dal carbone tenda a diminuire.
Il fatto che il carbone non sia più estratto a livello locale dei singoli Paesi, ma sia soggetto ad un crescente import-export, non solo è antieconomico, ma peggiora di molto gli effetti inquinanti a causa del trasporto. Ad avvantaggiarsene però è il business delle grandi multinazionali del settore, come la
AngloAmerican. Si tratta di una di quelle grandi corporation minerarie che nessuno sente mai nominare, ma che dominano l'economia mondiale.
Manco a dirlo, la AngloAmerican è la multinazionale più attiva nel gestire il business delle miniere di carbone colombiane, ed attualmente si trova coinvolta in un
contenzioso giudiziario con le popolazioni locali, che protestano contro i devastanti effetti sanitari ed ambientali delle famigerate miniere di carbone a cielo aperto.
Per ottenere l'alone mediatico di "statista" basta fare gli interessi di qualche multinazionale. Che la carriera della cosiddetta "Lady di ferro" sia stata in realtà tutta all'insegna della cartapesta della finzione mediatica, è indicato anche dalla scarsa attenzione prestata al dettaglio che fu la "inspiegabile" scissione socialdemocratica del Partito Laburista a consentire alla Thatcher di conseguire i tre mandati consecutivi di primo ministro. La carriera politica della Thatcher si è sviluppata sempre sotto l'ombrello di protezioni tutt'altro che trasparenti, e la sua figura ha rappresentato uno dei tanti casi tipici di strumentalizzazione dell'immagine femminile a fini reazionari e affaristici. Si tratta dello stesso metodo per il quale il colonialismo statunitense ha inventato per Cuba la "dissidente" Yoani Sanchez, come immagine femminil-giovanile da opporre alla gerontocrazia dei fratelli Castro.
Nel caso dei minatori inglesi, la propaganda mediatica non si è limitata a contrapporvi un'immagine femminile di nanny severa e castigamatti, ma nel 2000 ha anche prodotto una rilettura di tutta la vicenda storica dello sciopero come un superamento del maschilismo dei minatori stessi. Ci si riferisce al film
"Billy Elliot", esaltato dalla critica ufficiale come uno dei capolavori assoluti della cinematografia britannica. La trama del film narra del figlio di un minatore che si dissocia dai valori del padre per seguire la vocazione della danza classica; per fare ciò, il ragazzo sfida i pregiudizi del suo ambiente operaio, condizionato dai pregiudizi circa la perdita di virilità che la danza comporterebbe.
Il messaggio del film "Billy Elliot" era stato preparato attraverso operazioni cinematografiche precedenti, come "Full Monty", nel quale degli operai disoccupati trovavano modo di riciclarsi come spogliarellisti. Ancora una volta dei temi progressisti, e apparentemente spregiudicati, erano stati strumentalizzati e distorti dalla propaganda ufficiale in chiave reazionaria.