Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Sull’ultimo referendum in Irlanda si erano concentrate le attese di chi sperava che dalle urne uscisse un diniego tale da bloccare l’entrata in vigore del famigerato Trattato di Lisbona, che, con le sue norme, consegna l’Europa al bizzoso arbitrio della cosca bancaria e, tra le altre cose, reintroduce anche la pena di morte per il reato di insurrezione, da comminare con rito sommario.
Non si era però presa in sufficiente considerazione la prospettiva di brogli. Già il fatto di ripetere un referendum a distanza di un anno, solo perché il suo risultato non era gradito, costituiva di per sé un broglio, una plateale illegalità di Stato, che violava e ridicolizzava tutta la retorica democratica ufficiale.
Ma lo spostamento dei voti dal no al sì sarebbe stato di tale entità, da risultare palesemente impossibile. I sostenitori del Trattato hanno voluto stravincere al di là dei limiti del credibile, in modo da lanciare agli oppositori il chiaro messaggio di essere disposti a tutto.
Gli avversari del Trattato, che avevano riposto nel referendum le loro ultime speranze, devono invece constatare la propria ingenuità. Una prospettiva un po’ più realistica per ipotizzare un blocco del Trattato, avrebbe potuto semmai basarsi sulla speranza che la presenza di decisi contrasti interni al governo irlandese potesse evitare la falsificazione del risultato delle urne. A quanto pare invece il governo irlandese, nel suo complesso, è stato piegato dai ricatti e dalle promesse dell’oligarchia affaristico-criminale; quella che, con termine edulcorato, viene denominata “Eurocrazia”. E la cosa non deve stupire, se si considera la tempesta finanziaria che era stata scatenata sull’Irlanda, per punirla di aver respinto il Trattato lo scorso anno.
D’altra parte non si può non essere comprensivi verso chi abbia manifestato questa ingenuità, se si considera che siamo in un Paese dove non solo i lettori de “La Repubblica”, ma anche quelli de “il Manifesto” e di “Liberazione”, sono assuefatti a credere a fiabe come quella che negli Stati Uniti i presidenti si dimettono perché hanno mentito, o che il governo ti dia la scorta perché sei un giornalista impegnato contro la criminalità organizzata.
In un clima del genere, c’è da essere certi che nessuno di quelli che sono stati pronti a gridare ai brogli per le elezioni in Iran - basandosi esclusivamente sulla parola del candidato sconfitto -, ora si farà venire il benché minimo dubbio sulla autenticità del risultato referendario in Irlanda. Non avrà il minimo peso neanche la ovvia considerazione che avrebbe costituito un assoluto nonsenso imporre la ripetizione del referendum, se preliminarmente non ci fosse stata stavolta l’intenzione di vincerlo comunque, e con qualsiasi mezzo.
Un sistema politico in cui gli affari illegali siano non il principale progetto, ma l’unico progetto, può fondare la sua credibilità esclusivamente sulla presenza di una finta opposizione, che sostituisca il conflitto con una drammatizzazione artificiosa e diversiva.
La scorsa settimana questa drammatizzazione artificiosa ha prodotto il suo eroe/martire di turno: Michele Santoro, il presunto alfiere della libertà di informazione. Eppure risultava strano che proprio nei giorni in cui il Presidente della Repubblica stava per apporre la firma definitiva sul cosiddetto “scudo fiscale”, cioè sulla legge che autorizza il riciclaggio di denaro sporco - e quindi sarebbe stato utile attuare nei confronti di Napolitano una pressione di opinione pubblica -, l’attenzione venisse invece spostata sulle escort di Berlusconi.
Qui non si tratta di “benaltrismo”, poiché è innegabile che il caso in oggetto non riguardasse un presunto “privato” del Presidente del Consiglio, bensì l’abuso della sua funzione pubblica per ottenere favori personali. Si trattava però di dimostrare un po' di senso delle priorità, poiché nulla avrebbe impedito di rimandare la trasmissione di "Annozero" sul caso-escort di una o due settimane, per concentrarsi in quel momento sull’approvazione di una legge che ora ha trasformato l’Italia in un altro Kosovo, cioè in una centrale legale di riciclaggio di denaro ottenuto da attività illegali. Il legame diretto e consequenziale tra riciclaggio e banche ci rimanda a quello che oggi è il potere che non solo domina l’Europa, ma la crea a sua immagine e somiglianza, cioè il potere bancario.
Le dichiarazioni di soddisfazione per il risultato irlandese hanno coinvolto in Italia sia la maggioranza che la cosiddetta “opposizione”, il che dimostra che chi vuole vedere nell’attuale psicodramma mediatico attorno a Berlusconi l’indizio dell’attacco ad un sua presunta azione anticoloniale e ad una sua difesa degli interessi economici nazionali, si sta facendo solo illusioni. L’asse affaristico-criminale composto da Federal Reserve, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea, non incontra attualmente alcuna resistenza all’interno del quadro politico ufficiale, sia in Italia che in Europa.
Dalla metà degli anni ’70, la Scuola Pubblica è stata il laboratorio della precarizzazione del lavoro, quindi con venti anni di anticipo rispetto alla nascita ufficiale dello slogan della “flessibilità”. Il fatto non fu chiaramente avvertito a suo tempo, poiché la figura del supplente esisteva da sempre, e fu quindi facile, almeno all’inizio, confondere le acque.
L’ultimo corso abilitante per docenti precari degli anni ‘70 fu svolto nel 1974. Dopo quella data, per un intero decennio, fu negata qualsiasi occasione agli insegnanti precari di accedere ad un titolo abilitante, e quindi alla possibilità di assunzione a tempo indeterminato. Si verificò così uno sbilanciamento numerico del personale insegnante, tanto che quello di “ruolo” divenne minoritario in molte realtà (allora esisteva ancora la figura giuridica del ruolo, poi abolita dal governo Amato nel 1993). Infatti la maggioranza delle supplenze non era più attribuita dai Presidi, ma dai Provveditori, a conferma che le supplenze stesse non riguardavano assenze temporanee dei docenti di ruolo, ma posti vacanti.
Non è una coincidenza il fatto che dalla metà degli anni ’70 si verificasse il boom delle scuole private dette “diplomifici”, le quali potevano disporre di una quantità di personale docente costretta a lavorare esclusivamente per acquisire punteggio. Per gli istituti privati la voce di bilancio “costo del lavoro” scendeva praticamente a zero, anche considerando che in quel decennio divennero abituali i provvedimenti governativi di fiscalizzazione degli oneri sociali delle imprese.
Molti Istituti paritari trasformarono addirittura il contributo statale del cinquanta per cento sullo stipendio dei docenti, in un profitto netto, dato che ai docenti stessi, in realtà, non corrispondevano assolutamente nulla.
La proliferazione degli Istituti privati è quindi avvenuta non solo a scapito del funzionamento della Scuola Pubblica, ma soprattutto attraverso il denaro pubblico e la precarizzazione del corpo insegnante pubblico, reso vulnerabile ad ogni genere di ricatto.
Alla fine degli anni ’90 la precarizzazione nella Scuola aveva fatto segnare nuovamente livelli record, anche se, nel 1998, uno dei rarissimi atti limpidi del ministro dell’Istruzione Berlinguer, fu quello di adeguarsi alle sentenze dei TAR e del Consiglio di Stato, che avevano constatato l‘illegalità della prassi dei Provveditori - particolarmente meridionali - di tenere bloccate le assunzioni in presenza di posti vacanti da anni. In particolare, le graduatorie del concorso a cattedre del 1990 erano state tenute in quarantena in attesa della scadenza della loro validità dopo tre anni; un espediente che il Consiglio di Stato ritenne illegale dato che la scadenza avrebbe potuto verificarsi solo in presenza dell’indizione di nuovi concorsi, che invece non erano stati indetti. La accertata illegalità di queste pratiche di precarizzazione forzata sbloccò per un po’ le assunzioni a tempo indeterminato, ma non comportò alcuna sanzione disciplinare per i Provveditori responsabili, poiché si trattava, evidentemente, di una illegalità di Stato pianificata ad alti livelli. Non a caso, la via del ricorso amministrativo è stata resa dai vari governi sempre più ostica e problematica.
Gli odierni pretesti ufficiali per le mancate assunzioni nella Scuola riguardano sempre la indisponibilità di posti, ma, ancora una volta, è proprio il numero esorbitante dei precari a smentire questi pretesti. La precarizzazione, perciò, non è l’effetto di uno stato di necessità, ma costituisce una forzatura illegale e funzionale agli interessi affaristici dell’istruzione privata.
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