Parafrasando la nota canzone di Brassens tradotta da De André, si potrebbe dire che qualche rivoluzione colorata senza pretese l’abbiamo avuta anche noi nel nostro Paese. Una rivoluzione colorata di nero (il nero delle toghe dei magistrati), è stata la vicenda di “Mani pulite”, iniziata nel 1992, lo stesso anno della firma del Trattato di Maastricht. Ci sono stati vari tentativi di rivalutazione del personaggio che ha rappresentato la principale vittima di “Mani pulite”, cioè Bettino Craxi. I tentativi si arenano però sull’evidenza che il ceto politico di cui Craxi è stato il principale esponente, ha attivamente collaborato a segare il ramo su cui era appollaiato, cioè l’intervento pubblico in economia. Su un aspetto di quell’intervento pubblico è però difficile pensare che quel ceto politico avrebbe potuto rinunciarvi spontaneamente: il controllo diretto sulle banche.
L’ex vicepresidente dell’IRI, Riccardo Gallo, ha affermato che
lo smantellamento dello stesso IRI e la privatizzazione delle sue imprese, comprese le banche, non fu “merito” di Romano Prodi, bensì del “vincolo esterno”, cioè del vincolo dei trattati europei, opportunamente invocato, sollecitato e coltivato dai privatizzatori di casa nostra, come Mario Draghi. La “rivoluzione” avviata da “Mani pulite” fu quindi un’operazione coloniale, ed al tempo stesso autocoloniale, nella quale un ceto politico radicato nel territorio, veniva soppiantato dalla finanza globale.
Le banche pubbliche potrebbero rappresentare l’oggetto del contendere anche nel caso dell’attuale rivoluzione colorata in Bielorussia contro il ”dittatore” Lukashenko.
La principale banca bielorussa è infatti Belarusbank, quasi al 100% di proprietà statale; e comunque la gran parte del sistema bancario bielorusso è sotto il diretto controllo statale.
In questo periodo un altro “dittatore”, il presidente turco Erdogan, è in difficoltà, poiché
la lira turca è sotto costante attacco speculativo e lo Stato turco, secondo la Banca Centrale Europea, rischierebbe addirittura il default. Sarebbe interessante valutare se la BCE si stia comportando da imparziale registratore dei dati oppure da interessato menagramo.
Anche in Turchia il sistema bancario è in gran parte pubblico e, secondo il sito “Business insider”,
il dittatore Erdogan si servirebbe delle banche per difendere il proprio potere, negando i crediti al sindaco di Istanbul, suo avversario politico. Al sindaco sono arrivati però i crediti di banche tedesche e francesi, a conferma che l’opposizione alle “dittature” finisce per dipendere dalla finanza globale. Si tratterebbe quindi di scegliere tra il ”dittatore” di casa propria e la dittatura dei sedicenti “Mercati”: un’alternativa davvero allettante.
A riguardo il politicamente corretto non ha dubbi, poiché il “dittatore” è scomposto e sudaticcio, mentre l’azione dei sedicenti “Mercati” vanta l’asettica ineluttabilità di una sentenza divina. Eppure la ripugnante fisicità del “dittatore” rappresenta l’ultimo legame, per quanto abietto, del potere con l’umanamente riconoscibile. La finanza globale invece, come dice George Soros, è la latrice incolpevole dei messaggi delle leggi imperscrutabili del “Mercato”.
Dopo il politicamente corretto, ora c’è anche il ”geopoliticamente corretto”. La rivista di geopolitica “Limes” pretenderebbe infatti di parlarci di scontro tra potenze senza accennare alla finanza, ai fondi di investimento ed alle banche. La potenza però si misura in capacità di spesa e il denaro è la principale arma da guerra. Flussi e deflussi di capitali possono letteralmente distruggere l’economia e la società dei Paesi che ne sono attraversati.
Si potrebbe quindi legittimamente dubitare dell’autenticità di “rivoluzioni” che inneggiano alla libertà contro il “dittatore” o il “corrotto” di turno, senza minimamente domandarsi che fine faranno le sue banche, cioè se verranno privatizzate o meno. Una “libertà” che si risolve esclusivamente in libertà di circolazione mondiale dei capitali, può accontentare i politicamente corretti ma non chi pensa ad una difesa concreta del lavoro e dei poveri; una difesa che può passare solo per una limitazione della mobilità dei capitali.
I Neocon americani, a differenza di “Limes”, non appartengono alla ”scuola realista” in politica estera, bensì a quella “idealista” e sono notoriamente i maggiori “cacciatori di dittatori”. Secondo James Carden, un ex esponente dell’Amministrazione Obama, ed il ricercatore Marshall Auerback, sarebbe attualmente in corso
un’inedita alleanza tra i Neocon con i Democratici in funzione anti-Trump.
I Neocon non rappresentano una vera dottrina politica ma una tecnica di propaganda, che consiste nel denunciare il presunto “pacifismo” di questo o quel presidente, in particolare Clinton, Obama ed ora Trump. Durante queste presidenze non si sono risparmiate sia le aggressioni militari, sia le operazioni di destabilizzazione interna in vari Paesi, ma la propaganda ha proprio la funzione di negare l’evidenza. I Neocon sono una declinazione “recriminatoria” del politicamente corretto, per cui il “come siamo buoni” diventa “siamo troppo buoni”.
Ai Neocon potrebbe però servire una guida per riconoscere i “dittatori” e poterli quindi eliminare meglio. I dittatori non sono quelli che ammazzano e opprimono, dato che queste cose le fanno tutti i regimi, ma quelli che hanno banche di proprietà statale.
Ringraziamo Claudio Mazzolani e Tiziano Cardosi per la collaborazione.