L’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani da parte degli USA è stato raccontato dai media secondo i criteri classici della disinformazione, cioè palesi menzogne ed altrettanto palesi contraddizioni. Uno degli addetti a questa disinformazione, il giornalista dei servizi segreti Maurizio Molinari, ha mescolato presunte motivazioni personali del cialtrone Trump con
considerazioni pseudo-strategiche attribuite agli USA. Secondo Molinari, CialTrump non poteva subire passivamente l’assalto della folla all’ambasciata USA di Baghdad per non pagarne lo scotto in termini elettorali. Pare infatti che si preparino elezioni nell’Iowa (immaginiamoci quindi cosa succederà quando ci saranno le elezioni in Ohio).
Ammesso che l’ordine sia partito davvero dal presidente, è difficile credere che il Pentagono sia disposto ad assecondare senza un tornaconto le mire elettorali di CialTrump o di chiunque altro ed avrebbe avuto mille modi per non obbedire. La stessa motivazione elettoralistica appare poi quantomeno forzata. C’è sì il precedente di Carter non rieletto per gli ostaggi all’ambasciata di Teheran ma, se è per questo, c’è un precedente opposto anche più clamoroso, del settembre del 2012 quando, nel pieno della campagna presidenziale per la sua rielezione, Obama si vide ammazzare
l’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi. Obama però fu rieletto senza problemi ed il caso Stevens fu insabbiato con un rapporto finale che se la cavava con qualche critica molto generica alle forze armate per non aver ben difeso l’ambasciatore. Come insabbiatori gli Americani sono bravissimi anche loro.
Molinari ricorre al luogo comune dell’americano che non si fa saltare la mosca al naso, un mito funzionale sia al filoamericanismo più demenziale, sia all’antiamericanismo naif, cioè quello che si risolve nel credere che il problema degli Americani sia di essere rimasti cowboy. Il vero antiamericanismo consiste invece nel riconoscere che gli Americani sono esattamente come tutti gli altri e si atteggiano a suscettibili e vendicativi o fanno finta di nulla a seconda delle convenienze.
L’altra motivazione offerta da Molinari riguarderebbe l’esigenza degli USA di rilanciare la “deterrenza” nei confronti dell’Iran. Qui ci troviamo di fronte all’uso a sproposito di un parolone. “Deterrenza” significherebbe dimostrazione di forza per dissuadere un avversario. Nel caso dell’assassinio di Soleimani non c’è stata però alcuna dimostrazione di forza, semmai di slealtà verso il governo iracheno, presunto “alleato”, dato che l’attentato è avvenuto all’aeroporto di Baghdad, cioè mentre il bersaglio era senza protezione e non mentre se ne stava in una roccaforte dei Pasdaran iraniani.
Esattamente due anni fa Soleimani era stato avvertito dal Mossad di essere
un bersaglio ed il messaggio era abbastanza chiaro: se ti attieni all’aspetto militare non ci interessa farti fuori, ma se continui a tessere relazioni diplomatiche in Medio Oriente, allora aspettati il peggio perché anche gli USA hanno dato luce verde all’esecuzione. Soleimani ha scelto di continuare i suoi giri diplomatici con i conseguenti rischi di farsi trovare allo scoperto. Al di là della retorica del coraggio e del martirio, non avrebbe potuto fare altro, perché se sei il capo gli altri vogliono trattare personalmente con te e non con un vice.
L’uccisione di un Soleimani in versione diplomatica e non militare non ha avuto alcuna incidenza sui rapporti di forza in campo, semmai crea nell’opinione pubblica mediorientale il sospetto che gli USA abbiano dovuto far fuori Soleimani col tradimento dato che non ne erano capaci con la potenza. La decisione del parlamento iracheno di allontanare le truppe straniere è solo simbolica e non ha alcun effetto pratico, ma comunque toglie agli USA l’ultima foglia di fico legale per la loro presenza in quell’area .
Lo stesso Molinari contraddice l’ipotesi della deterrenza affermando che ci si attendono reazioni iraniane anche nel Golfo Persico. Allora non si trattava di dissuasione, era una provocazione. Non si capisce però che interesse abbia l’Iran ad incendiare il Golfo Persico, visto che dipende da quella via per le sue esportazioni di petrolio. Pare che l’Iran sia salito al tredicesimo posto nel mondo per potenza militare, quindi per gli USA si tratterebbe di un avversario ostico, tanto più se assistito da Russia e Cina sul piano missilistico (e la pioggia di missili di martedì notte sulle basi USA in Iraq pare un avviso in tal senso).
D’altra parte gli stessi dirigenti iraniani sono i primi a cogliere i propri limiti ed a comprendere che la cosiddetta “Mezzaluna sciita" dall’Iran allo Yemen passando per Siria e Libano, è in realtà una “bolla” provocata dagli stessi USA. Sono stati gli USA ad eliminare il contrappeso sunnita all’Iran, cioè Saddam Hussein, come sono stati gli USA (con i loro “alleati” europei) a trasformare quell’alleato alla pari dell’Iran che era Bashar al-Assad in un suo cliente; allo stesso modo sono stati gli USA, con la loro assistenza all’aggressione saudita, a far entrare i ribelli dello Yemen, di un’altra setta islamica, nell’orbita sciita. L’attuale “potenza” dell’Iran è quindi un prodotto della destabilizzazione operata dagli USA. Molti commentatori hanno parlato a riguardo di “errori”, mentre in effetti c’era una precisa volontà di far saltare gli equilibri nell’area. Il vero problema per l’Iran è che una guerra rappresenterebbe di per sé una sconfitta a causa dello strozzamento economico e commerciale che comporterebbe. L’Iran ha quindi un oggettivo interesse a non far salire la tensione nel Golfo Persico.
Chi invece si trova nel Golfo Persico in una posizione a dir poco ambigua è proprio la flotta statunitense. Gli Stati Uniti infatti hanno raggiunto non solo
l’autosufficienza energetica ma sono diventati addirittura esportatori netti di petrolio, cioè esportano più petrolio di quanto ne importano. Il petrolio statunitense però è molto costoso, poiché è ricavato dalle rocce di scisto, perciò non può competere alla pari con l’offerta dei tradizionali tipi di petrolio.
Nonostante le tensioni crescenti, il prezzo del petrolio non riesce a sfondare quella soglia dei settanta dollari che renderebbe remunerativo il petrolio di scisto, dato che la recessione mondiale fa cadere la domanda di idrocarburi. L’antieconomico ed antiecologico petrolio di scisto perciò può diventare competitivo solo se per gli altri produttori risulta impossibile vendere il proprio petrolio a causa dell’aumento dei costi assicurativi dovuti al crescente rischio del trasporto. Si può comprare petrolio a prezzi stracciati, ma poi il vantaggio del prezzo viene rimangiato da quanto devi versare alle compagnie assicurative perché ti coprano i rischi sul carico.
Se quindi c’è qualcuno che ha un preciso interesse commerciale a sabotare il Golfo Persico come via d’accesso, questo qualcuno è gli USA. Come guardiani del Golfo Persico, gli USA si trovano in evidente conflitto di interessi e le prudenze dei governi europei nella circostanza indicano che a loro questo aspetto è chiaro. In effetti l’unico politico europeo a fare i salti di gioia per l’attentato a Soleimani, è stato Matteo Salvini.
Prima dell’ultima provocazione statunitense, Arabia Saudita ed Iran stavano negoziando
una tregua per garantirsi reciprocamente la possibilità di esportare il proprio petrolio. Non è detto perciò che la provocazione statunitense riesca a sabotare l’accordo, tanto più che è sin troppo evidente che lo scopo degli USA fosse proprio quello.
Quel che è certo è che gli USA dovranno per forza insistere nella loro tattica provocatoria, poiché ormai non è più soltanto questione di avidità dei loro petrolieri. Gli investimenti nel petrolio di scisto sono stati enormi e varie aziende hanno cominciato a fallire. La produzione non è scesa perché tutti gli impianti sono ora utilizzati al massimo grazie alle tensioni nel Golfo Persico che rendono incerti i trasporti. Se nel Golfo Persico la situazione si stabilizzasse, la
catena dei fallimenti delle aziende del petrolio di scisto si trascinerebbe dietro l’intera economia americana.