I dati sulla caduta della crescita e della produzione industriale in Italia nella seconda metà del 2018, sono stati accolti con un compiacimento eccessivo, che va oltre la scontata polemica con l’attuale governo. Le stesse notizie sul rallentamento economico della Germania e della Cina hanno suscitato nei media una sorta di euforia, come a confermare che la “crescita” non è affatto un obbiettivo comune e condiviso, al di là dei mezzi ritenuti idonei per raggiungerlo.
La lobby della deflazione è la grande innominata e innominabile dell’attuale contesto economico globale, così come viene totalmente rimossa l’ovvia osservazione per cui i processi di finanziarizzazione richiedono necessariamente un quadro di stagnazione economica. Lo sviluppo economico, con il conseguente aumento delle entrate fiscali, renderebbe gli Stati meno dipendenti dai prestiti dei grandi “investitori istituzionali”, cioè le multinazionali del credito, colossi bancari e fondi di investimento. Lo sviluppo determinerebbe inflazione e quindi erosione del valore dei crediti. Lo sviluppo determinerebbe anche aumenti salariali e quindi una minore dipendenza delle masse dal credito ai consumi. Insomma, lo sviluppo economico per la grande finanza sarebbe una iattura, quindi non c’è nulla di strano nel fatto che la centrale della lobby della deflazione, il Fondo Monetario Internazionale, delinei per il futuro scenari catastrofici in modo da scoraggiare gli investimenti e i consumi.
Il problema è che attualmente si sta procedendo sul filo del rasoio. Alle spinte della lobby della deflazione, corrispondono analoghe spinte di parte statunitense per un aumento stabile dei prezzi del petrolio, in modo da favorire la produzione americana di
petrolio di scisto. Questo petrolio è talmente costoso da risultare competitivo solo se i prezzi del petrolio superano i settanta dollari al barile.
Da questa esigenza di creare le condizioni di mercato per il petrolio di scisto, derivano i tentativi americani di mettere fuori mercato per i prossimi anni il petrolio del Venezuela, dell’Iran e della Russia. Un aumento dei prezzi del petrolio in presenza di una generale stagnazione economica potrebbe innescare effetti recessivi devastanti, di una portata difficile da prevedere. L’Unione Europea è una creatura della lobby della deflazione, quindi ha una politica ad una sola dimensione e, come tale, non è assolutamente in grado di porsi altri problemi come la gestione a lungo termine dei prezzi delle materie prime. Per nascondere le proprie finalità esclusivamente deflazionistiche, l’Europa continua - e continuerà - ad avvilupparsi nelle menzogne e nelle finzioni, come l’Europa “a due velocità” o la “Framania”.
Il sistema della menzogna europea è stato spesso paragonato a quello dell’Unione Sovietica. Questo paragone è notevolmente fuorviante e sorprende il fatto che a volte venga tirato fuori anche da analisti dotati di notevole lucidità, come lo storico Vladimiro Giacché.
Le ingannevoli promesse sul benessere che avrebbe assicurato l’Unione Europea erano strettamente in funzione dell’inconfessabilità delle finalità deflattive. Che la cosiddetta “austerità espansiva” fosse una balla, era evidente soprattutto a chi la raccontava. Si trattava quindi di menzogne strumentali e pubblicitarie, ben calcolate nei loro effetti sul target dei “consumatori”. Per dissimularne la funzione meramente deflazionistica, ci è stato così spacciato un euro per tutti i gusti e tutte le esigenze: un euro che ridimensionava la Germania, un euro che difendeva i salari dall’inflazione, un euro che assicurava la pace, un euro che sviluppava il commercio; ci è mancato solo un euro che lava più bianco e un euro che fa ricrescere i capelli.
Anche l’Unione Sovietica mentiva sempre, ma spesso senza alcuna necessità, anzi, con effetti autolesionistici. La menzogna socialista non era strumentale ma incontrollata e confusionaria, nasceva cioè da un complesso di inferiorità nei confronti del capitalismo, laddove invece ammettere le proprie debolezze e la inevitabile limitatezza dei propri obbiettivi avrebbe generato meno discredito. Il riscontro di questo dato si è avuto con il caso cubano negli anni ’90, quando il regime castrista ha cominciato a provare i vantaggi per il suo prestigio internazionale del mentire meno, rivendicando i successi effettivamente raggiunti nell’indipendenza del Paese, nella sanità e nell’istruzione, mettendo però da parte le scemenze sul paradiso socialista e sul cosiddetto “uomo nuovo”. La sintesi di questo nuovo atteggiamento più realistico si condensò nella famosa battuta di Fidel Castro: “il nostro sistema dell’istruzione funziona talmente bene che oggi anche le prostitute sono laureate”.
Sarebbe interessante capire se il complesso d’inferiorità sia alla base anche di molte delle menzogne “sovraniste”, in particolare quelle sul tema migratorio, presentato falsamente come invasione dei poveri del mondo invece che come scontato effetto della finanziarizzazione e “banchizzazione” delle masse povere dell’Africa e dell’Asia. Avviene così che il Paese che ha il PIL più alto dell’Africa, la Nigeria, che non ha neppure la micidiale palla al piede del franco CFA, sia anche quello che produce il maggior numero di migranti, a causa dell’indebitamento di massa dovuto al boom del microcredito. Nonostante i suoi effetti socialmente disastrosi, il business della microfinanza viene ancora promosso e protetto dalla Banca centrale nigeriana e tuttora presentato come
rimedio alla povertà. Ciò a proposito di menzogne pubblicitarie del lobbying.
I miti della difesa dell’identità, dei confini e dell’esser “padroni a casa propria” potrebbero essere la risultante del senso d’impotenza dei “sovranisti” nel cimentarsi sull’unico terreno che realmente conta, cioè il contrasto alla mobilità dei capitali. È infatti sulla mobilità dei capitali che la lobby della deflazione fonda il proprio strapotere.