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GLI APPARENTI NONSENSI DEL FISCAL COMPACT
Di comidad (del 27/07/2017 @ 00:53:35, in Commentario 2017, linkato 2271 volte)
In soccorso delle dichiarazioni di Renzi sul Fiscal Compact è arrivato il giudice costituzionale Giuliano Amato, il quale non si è limitato a criticare dal punto di vista economico quell’accordo europeo votato dal parlamento italiano nel 2012. Amato si è spinto infatti sino ad ipotizzare l’incostituzionalità della parte del Fiscal Compact accolta nella Costituzione, in quanto sancire il principio del pareggio di bilancio sarebbe in contrasto con quanto proclamato dai primi articoli della Carta Costituzionale.
In realtà l’incostituzionalità dell’inserimento del pareggio di bilancio nella Carta fondamentale è riscontrabile persino oltre questa considerazione di Amato, in quanto rappresenta un nonsenso giuridico per una Costituzione “democratica” la pretesa di dettare ai governi una specifica linea di politica economica e soltanto quella. Sarebbe altrettanto un assurdo se fosse stato costituzionalmente proclamato il principio contrario, cioè il disavanzo di bilancio. Al di là delle questioni costituzionali, per quello che contano, appare quantomeno strano che un ceto politico abbia accettato di limitare preventivamente la sua capacità di spesa, quindi il suo potere reale.
Anche dal punto di vista strettamente economico i nonsensi del Fiscal Compact si sprecano. Nel 2012 la spesa pubblica già rappresentava oltre il 50% del reddito nazionale. Di fronte a questa constatazione la risposta mainstream è quella di privatizzare. Sennonché le privatizzazioni non soltanto non vanno a beneficio dell’erario, risolvendosi in svendite o regali, ma soprattutto le privatizzazioni pesano per anni sulla spesa pubblica perché i privati vanno “sostenuti” con contributi e sgravi fiscali ogni volta che vanno ad incamerare un bene pubblico. Il liberismo è una fiaba pseudo-economica che presenta invariabilmente l’imprenditore come vittima del fisco e delle burocrazie statali, dimenticando quanto le imprese riscuotono in termini di pubblico denaro; anzi il liberismo spinge il vittimismo padronale sino a presentare persino i sussidi statali alle imprese come una forma di oppressione. Insomma, se si cerca un po’ di realismo, meglio la fiaba del Gatto con gli Stivali che le fiabe del liberismo.
Gli effetti depressivi dei tagli di spesa pubblica sono evidenti a distanza di sei anni dall’inizio della super-austerità; infatti, in base ai dati della Corte dei Conti, oggi la spesa pubblica rappresenta addirittura il 60% del reddito nazionale. È successo qualcosa di analogo con il debito pubblico, infatti in questi sei anni di super-austerità il rapporto tra debito sovrano e PIL è addirittura aumentato, superando il 130%.

Un altro nonsenso del Fiscal Compact consiste nella impossibilità di attuarlo pienamente e infatti sinora nessun Paese lo ha mai applicato in tutte le sue articolazioni. Ma questo ulteriore nonsenso contribuisce a spiegare tutti gli altri. Il Fiscal Compact deve essere talmente stringente da risultare inapplicabile; deve rimanere infatti come una sorta di debito sempre incombente, come una colpa da espiare indefinitamente. Il Fiscal Compact è un po’ come le famose “riforme strutturali”, delle quali alla fine si scopre sempre che non sono state abbastanza “strutturali”.
Per capirci qualcosa di più occorre considerare che se la super-austerità è cominciata da sei anni, l’austerità, o i “sacrifici”, sono cominciati molto prima (in “tempi non sospetti”, si potrebbe dire), cioè dalla metà degli anni ’60. La cosa non venne notata poiché il fenomeno si concentrò nelle regioni meridionali. Il caso del terremoto del Belice nel ’68 è a riguardo paradigmatico. Nel 2007 il quotidiano “La Repubblica” pubblicava un articolo con un titolo che ne negava il contenuto. Il titolo proclamava che con i soldi del Belice si erano costruite ville al mare, mentre nell’articolo si veniva a sapere che per il terremoto del Friuli del ’75 si era stanziata una cifra doppia rispetto al Belice e per di più in un lasso di tempo molto più breve. Lo scandalismo sul Belice (il “dove sono finiti i soldi del Belice?” di pertiniana memoria) serviva a coprire una politica di tagli di spesa pubblica allora concentrati solo in una certa parte del Paese. La corruzione e la criminalità fanno comodo anche come alibi ideologico: ti si negano i soldi e poi ti si accusa di averli rubati tu.
L’austerità quindi è un nonsenso solo apparente, in quanto costituisce un’etichetta “morale” da apporre ad un processo di gerarchizzazione sociale. L’espansione economica mette in crisi le gerarchie sociali e la pauperizzazione è lo strumento per ristabilirle; ma la pauperizzazione deve essere percepita come una moralizzazione, come un’espiazione di colpe passate, presenti e future. L’austerità e i sacrifici rappresentano un principio (o un richiamo della foresta) trasversale a molte ideologie, perciò non c’è da stupirsi se nel 1977 il segretario del Partito Comunista, Enrico Berlinguer, rimase sedotto dal messaggio moralistico dell’austerità e l’adottò in una versione di “sinistra”.

La povertà ristabilisce le gerarchie sociali ed inoltre la povertà fa business. Contrariamente a ciò che viene fatto credere all’opinione pubblica, più i business sono poveri più attirano capitali, ed è appunto il caso del microcredito. Nei fenomeni di migrazione di massa il microcredito ha svolto una funzione decisiva, perché emigrare costa. Allora che ti fa il nostro ministro degli Esteri Alfano? Il 14 luglio scorso ha firmato un protocollo per allargare il microcredito ai migranti in modo da “favorire uno sviluppo nei loro Paesi”. Insomma, si curano le ustioni con l’acqua bollente. In realtà i micro-prestiti non riescono ad incidere sulle condizioni di povertà in loco; in compenso i micro-prestiti sono sufficienti per spingere alla migrazione; anche perché emigrare rappresenta l’unica prospettiva per ripagare almeno in parte il debito.
Il fatto che il livello dei nostri ministri degli esteri scada progressivamente ed inesorabilmente, pone in evidenza un altro risvolto dell’austerità, quello coloniale. Un Paese che, come l’Italia, sia costretto a limitare la propria capacità di spesa, non avrà più carte da giocare nell’agone internazionale e si ridurrà ad una colonia che, come tale, non potrà più avere una politica estera.
Il caso della Libia è davanti agli occhi. Mentre il governo italiano non ha supportato l’Eni in Libia, il presidente Macron vi ha “investito” per tutelare gli interessi della multinazionale francese Total. Macron è così riuscito a spingere i contendenti Farraj e Haftar, rispettivamente dei governi di Tripoli e Tobruk, ad un tavolo di trattativa. Anche se c’è da osservare che gli abbracci di Macron al generale Haftar sono stati un po’ troppo affettuosi ed ostentati; perciò se Haftar ha un minimo di buonsenso, avrà già cominciato a temere per la sua pelle.