Uno degli “story telling” più frequenti riguarda la quota del PIL dovuta agli immigrati, con quantificazioni che cambiano a seconda del narratore. Gli immigrati dunque compenserebbero il calo di natalità e l’invecchiamento della popolazione italiana. Ma, come spesso capita, la questione è un po’ più complicata. Nel dopoguerra in Italia vi è stato un progressivo aumento della natalità, che ha trovato il suo picco nel 1964. La data è significativa poiché coincide con la prima grave crisi economica dopo il Boom degli anni precedenti. Si vuole spesso attribuire l’andamento della natalità a cause culturali ma, sta di fatto che, in base ai dati italiani, ciò non ha riscontro. Alla fine degli anni ’80 vi fu persino un nuovo picco delle nascite nel Nord Italia, in coincidenza con il buon andamento delle aspettative economiche. Al Sud questo aumento della natalità non ebbe riscontro perché le aspettative erano opposte; anzi, il
calo irreversibile della natalità nelle regioni meridionali cominciò proprio negli anni ’80 e coincise con la deindustrializzazione del Meridione. L’austerità al Sud era cominciata da due decenni ed i primi pareggi di bilancio operati dai governi negli anni ’80 furono ottenuti proprio con il taglio drastico degli investimenti pubblici nelle regioni meridionali.
Il crollo della natalità in Italia coincide quindi con il ventennio degli “avanzi primari”, cioè dei pareggi di bilancio al netto degli interessi sul debito pubblico; un debito che continuava a salire non perché le spese aumentassero, ma perché il PIL crollava. L’immigrazione è effettivamente una risorsa aggiuntiva se l’economia è in espansione. Se invece il PIL è in caduta, gli immigrati vanno invece a far concorrenza sulle fasce salariali più basse, determinando una deflazione salariale, cioè un taglio progressivo del costo del lavoro. Gli immigrati guadagnano troppo poco e perciò non incidono neppure sulla domanda interna. La questione dello “Ius Soli” ha riproposto il copione dello scontro di bandiera tra “buonisti” e “cattivisti”, tra “animabellisti” ed “animabruttisti”, ma in una società come questa il potenziale di effettiva integrazione è proporzionale alla capacità di spesa che, per gli immigrati, rimane infima.
In più gli immigrati rimettono all’estero gran parte del loro salario, alle famiglie di origine e alle agenzie di microcredito che gli hanno prestato il denaro per emigrare. Quindi c’è anche un’incidenza negativa dell’immigrazione sulla bilancia dei pagamenti del Paese ospitante. Suscitata per abbattere il costo del lavoro, oggi l’immigrazione è diventata un business in se stessa, proprio come la precarizzazione, che ormai alimenta soprattutto il business multinazionale delle agenzie di lavoro interinale.
Gli immigrati sono infatti dei super-fruitori di “servizi” finanziari per i poveri, dal microcredito dei “migration loans” alle rimesse. “Rimesse degli emigranti” ha un suono un po’patetico, ma sta di fatto che il sistema bancario africano ne ha fatto oggetto di
alchimie di finanza “innovativa”: le famigerate cartolarizzazioni, che, come è noto, fanno parte della affollata famiglia dei titoli derivati. Ipocritamente le banche africane si chiedono se sia opportuno rinunciare a forze lavorative giovani e dinamiche in cambio dell’attivazione di flussi di capitali, ma la scelta è stata già fatta e va nel senso della ulteriore finanziarizzazione dell’economia e dei rapporti sociali a livello mondiale.
Vari studi scientifici infatti hanno già posto in evidenza il legame tra accesso al microcredito e propensione all’emigrazione, ciò non solo in Africa ma
anche in Paesi asiatici come la Cambogia. Chi si indebita tende ad emigrare; o meglio, non ha altra opzione se vuole sperare di ripagare il debito, anche se ciò non lo salva dalla spirale delle insolvenze. Poco male, visto che anche le insolvenze possono essere “cartolarizzate”.
L’intreccio tra microcredito ed emigrazione è uno di quei segreti di Pulcinella su cui tutti i media rigorosamente tacciono, dato che non si devono disturbare certi interessi finanziari legati alla mobilità internazionale dei capitali. In questo “segreto” ci sarebbe inoltre una semplice soluzione per limitare i flussi migratori ed indurre senza traumi gli immigrati a tornare a casa propria: basterebbe infatti ai governi comprare i debiti dei migranti in modo da liberarli dal vincolo e dal ricatto. Sarebbe una soluzione molto meno costosa di quelle attuate adesso e andrebbe accompagnata da sanzioni diplomatiche nei confronti delle innumerevoli ONG coinvolte nel business del microcredito ai migranti. Certo che sarebbe una bella batosta per il business nostrano della pelosa “accoglienza”.
C’è ovviamente anche il business del traffico dei migranti, ma questo è ancora niente. Il fondatore dell’agenzia di “contractors” Blackwater, Erik Prince, ha venduto la sua vecchia creatura ed ha fondato una nuova società per azioni con sede alla Borsa di Hong Kong, il Frontier Services Group. Prince è noto anche per essere uno dei finanziatori della campagna elettorale di CialTrump e per avere una sorella nell’attuale amministrazione USA. Prince nel gennaio scorso ha rilasciato
un’intervista alla CNN in cui offriva ai governi la sua partnership per gestire l’emergenza migranti alle frontiere libiche.
Tutte le informazioni si possono ricavare da
fonti dirette del Frontier Services Group, che offre i suoi servizi di tutela delle frontiere e di trasporti ai governi, all’ONU e, guarda caso, anche alle ONG. Insomma, Prince è uno specialista nell’interpretare tutte le parti in commedia.
Il Frontier Services Group ci fa sapere infatti che ha una sua
base logistica a Malta, dal cui porto salpa la maggior parte delle navi ONG che effettuano “salvataggi” di migranti in mare. Ecco che le frontiere diventano un business. Ovviamente un business da privatizzare al più presto.