Come alcuni ogni tanto ricordano, anche Mussolini ebbe il suo “euro”. Nel 1926 il Duce lanciò lo slogan della “Quota 90”, che indicava il tasso di cambio della lira con la sterlina inglese che il regime intendeva perseguire in nome dell’orgoglio italico. Quella rivalutazione massiccia della lira comportò il massacro delle esportazioni italiane e dei consumi interni, ma in compenso rese l’Italia degna di accedere ai prestiti statunitensi.
Non a caso in quel periodo Mussolini era santificato dalla stampa estera, ed anglosassone in particolare, come il più grande italiano dai tempi del Rinascimento. Per riscuotere celebrazioni di questo calibro basta farsi benvolere dalle banche multinazionali. L’Italia arrivò così già stremata da cinque anni di deflazione all’appuntamento della grande crisi degli anni ‘30. Solo allora ci si orientò verso un’altra politica economica, lasciando un po’ da parte gli economisti “liberisti”, per rivolgersi invece a personale formatosi nella cerchia dell’ex Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Uno dei risultati di quella nuova politica economica fu la nascita dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, il più grande colosso industriale italiano fino a quando Romano Prodi non ne avviò lo smantellamento.
La liquidazione delle critiche anti-euro in termini di manifestazioni di nazionalismo o “sovranismo” non corrisponde quindi alla realtà storica, dato che l’ingerenza imperialistica è stata sempre trasversale alle ideologie ed alle forme di governo dei Paesi sudditi. “Democrazia” o dittatura, nazionalismo o sovranazionalismo, per la lobby imperialistica della deflazione sono solo orpelli retorici intercambiabili. Nei meccanismi di potere vi sono perciò delle costanti che si ripresentano al di là dell’esteriorità dei regimi, e non c’è solo la deflazione, così cara alle multinazionali finanziarie, che temono che i loro crediti possano essere erosi dall’inflazione.
Un’altra invarianza del potere consiste nella sua tendenza alla infantilizzazione delle masse, soggette ad un educazionismo incessante, strette nella forbice del rimprovero pretestuoso e della lode umiliante. Ma l’infantilizzazione funziona a due sensi, poiché il potere finisce per infantilizzare anche se stesso reclutando quel personale più disponibile ad una comunicazione che fa dell’irresponsabile malafede il proprio esclusivo punto di forza.
Mentre l’Italia si trova sotto la simultanea aggressione del cannibalismo bancario della Germania e della guerra commerciale dell’asse franco-britannico - che dal 2011 non fa mistero di voler estromettere le aziende italiane dal circuito degli affari col mondo arabo -, il governo Renzi si arrocca ancora sulla fiaba dell’aver salvato l’Italia dagli Italiani. Finché queste buffonate le fa uno come Renzi, ciò rientra nel ruolo e nei compiti dei fantocci coloniali incaricati di intrattenere il grosso pubblico. Ma quando è anche il vero capo del governo, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, a rilasciare certe dichiarazioni auto-screditanti, allora ciò vuol dire che la pratica dell’infantilizzazione ha sortito i suoi effetti di ritorno con un generale rincretinimento. All’ultima riunione del Fondo Monetario Internazionale, Padoan non ha esitato a rendersi ridicolo, insistendo sulla
litania del “come siamo stati virtuosi” e del “come ci apprezzano”, sebbene avrebbe dovuto sapere che le sue parole sarebbero giunte ad un uditorio tutt’altro che disposto a prenderlo sul serio.
Una conferma del feedback del rincretinimento ce l’ha fornita lo stesso uomo dell’euro, Romano Prodi. Da parecchi anni l’ex primo ministro spagnolo, José Maria Aznar, diffonde per l’Europa un aneddoto secondo cui Prodi nel 1992 gli avrebbe chiesto di concertare un ingresso ritardato nell’euro da parte dei Paesi del Sud-Europa. A quella proposta di Prodi, Aznar avrebbe reagito con l’orgogliosa determinazione di essere più bravo degli Italiani e di entrare prima di loro nel paradiso dell’euro. Questa “accusa” di Aznar, per quanto puerile, avrebbe potuto comunque andare a conforto dell’ipotesi di un barlume di buonsenso e di sana esitazione da parte di Prodi nel momento in cui ci si andava a precipitare nell’abisso dell’euro. In un periodo come questo servirebbe persino a rilanciare la sua immagine, parecchio deteriorata proprio dal disastro dell’euro. Macché. Prodi non perde occasione per
smentire indignato quell’aneddoto: non sia mai che si pensi che non abbia voluto essere il primo della classe quando si è trattato di entrare nell’euro. Il marchio dei collaborazionisti è il senso della competizione fine a se stessa, anche quando questa competizione va contro l’istinto di conservazione. Insomma, ci si tiene a passare a tutti i costi per “virtuosi”. Ma la “virtù”, in questo caso, consiste in una dolosa stupidità.