Ma cosa ci fanno tutti questi detenuti a poltrire nelle patrie galere, alloggiati e nutriti a spese del contribuente?
Il programma "Report" ha posto la spinosa questione offrendo, come al solito, soluzioni che sembrano retoricamente improntate ad un sano buon senso organizzativo; ma dietro una facciata persino "progressista", vengono proposte strategie che, quando realizzate, fanno la gioia delle cosche d'affari più criminali.
Il capitale finanziario ha scoperto, ad esempio, che le carte di credito, i sistemi di pagamento elettronico, i bancomat sono eccellenti metodi per lucrare su qualsiasi pagamento o transazione, oltre che strumenti per indurre quell’indebitamento che consegna chi ne fa uso alle cosche del recupero crediti e lo dispone alla mentalità schiavile di vendersi a qualsiasi prezzo.
"Report" giunge allora tempestivamente a spiegarci che i pagamenti elettronici evitano i furti di contante ai pensionati all’uscita della posta, costringono lo scapestrato venditore di caldarroste a lasciare finalmente traccia delle sue transazioni, e l’evasione fiscale scompare come d’incanto. E all’estero tutto questo è già realtà; mentre da noi…in Italia…
Nel libro dei sogni (sempre più reali) del capitalista non c’è solo quello di individui indebitati a vita, costretti a lavorare a salari da fame; c’è anche quello di operai che lavorino gratis, che debbano essere contenti di farlo, che non scioperino, che non possano protestare e che, all’occorrenza, possano essere adeguatamente puniti.
E allora che succede?
Un’inchiesta "rigorosa" di "Report" ci spiega che solo in Italia i detenuti stanno lì a girarsi i pollici e - a parte qualche lodevole progetto pilota -, costano al contribuente ben quattromila euro al mese; poi, quando escono, se escono, visto che hanno poltrito, non sono proprio degli aspiranti a qualche cattedra universitaria. L’inchiesta poi ci porta all’estero per spiegarci - con lo stucchevole autorazzismo che contraddistingue "Report" - che invece lì (in Austria, e soprattutto nei mitici USA) i detenuti sono felici di poter lavorare, ristrutturano e abbelliscono sapientemente le loro prigioni, imparano mestieri e acquistano competenze che saranno utili per il loro reinserimento sociale, non sono a carico del contribuente, e semmai restituiscono qualcosa "alla società"; i loro prodotti sono così apprezzati che, quando escono, le aziende fanno a gara per assumerli. Una situazione idilliaca. *
Forse Milena Gabanelli dovrebbe chiedersi come mai in Italia le carceri ospitano all’incirca una persona su mille (percentuale che già mette i brividi), mentre negli USA i detenuti sono quasi l’un per cento della popolazione, visto che la cosiddetta "popolazione carceraria" ha raggiunto di recente la spaventosa cifra di due milioni e trecentomila individui. Altro che Gulag! E altro che reinserimento sociale.
In realtà il meccanismo delle prigioni USA - perverso come ogni meccanismo detentivo, ma più perverso di tutti - è fondato sulla privatizzazione della maggioranza degli istituti di pena; il detenuto viene incentivato (in una prigione vuol dire "costretto") a lavorare per ottenere sconti di pena (davvero irrisori) ed un salario (fino a poco tempo fa si trattava di ventitré centesimi l’ora) calcolato dopo aver sottratto le spese per la detenzione, eventualmente quelle del processo, e il profitto per l’azienda esterna. Appare evidente che le aziende esterne sgomitino per avere la possibilità di sfruttare operai così docili e così a buon mercato; ma è chiaro anche che da parte della gestione privata della prigione, così come da parte delle aziende "collaboratrici", non vi è nessun interesse a "reinserire nel sociale" il detenuto; anzi, più ne arrivano, meglio è, con gli ovvi risultati di progressivo aumento della popolazione carceraria. La volontarietà, in un simile contesto, è assolutamente immaginaria; un noto magistrato intervistato da "Report" diceva che chi non lavora in prigione è chiaramente contro lo Stato; insomma il lavoro forzato potrebbe diventare presto una realtà "legalmente" estorta con il terrorismo psicologico, e speriamo solo con quello.
Anche l’ultima inchiesta di "Report" si sforza di rendere credibile uno dei miti più classici del capitalismo USA, cioè il capitalismo diffuso e popolare; oggi consisterebbe nella possibilità di fare soldi a palate avendo solo una buona idea che in rete troverebbe i finanziamenti necessari; e via con le fiabe sugli start app, crowdfunding, crowdsourcing, ecc.; tutte cose che naturalmente nella pigra Italia stentano a decollare, mentre all’estero…
Già molto tempo fa, Groucho Marx aveva ironizzato sul capitalismo popolare e sulla possibilità di fare soldi per il comune cittadino semplicemente investendo in borsa. Un certo giornalismo lobbistico è ancora addetto a raccontarci queste fiabe: le inchieste di Milena Gabba Merli, ad esempio.