Per spiegare il crollo elettorale della lista di Bertinotti,
è stato spesso evocato in questi giorni un soggetto
fantasmatico: l'elettorato. In realtà, anche se esiste una
quota di voto "sciolto", d'opinione, in democrazia però
è sempre il voto organizzato a fare la differenza.
Le grandi ristrutturazioni politiche - come il passaggio di consegne
dalla Democrazia Cristiana a Forza Italia - sono state spesso
segnate dalla morte misteriosa di baroni del voto, come Toni Bisaglia
in Veneto, Salvo Lima in Sicilia, Carmine Mensorio in Campania. Lo
strano annegamento di Toni Bisaglia aprì a suo tempo la
strada per il passaggio di una quota considerevole del voto
democristiano al neonato leghismo; successivamente gran parte di questa
massa di voti ha costituito anche il perno del berlusconismo. Il
fratello di Bisaglia - un prete che indagava su quella morte -
morì, manco a dirlo, anche lui annegato in circostanze
altrettanto non chiarite.
Persino la cosiddetta "sinistra" si sostiene soprattutto sul voto
organizzato, ed è noto che la Lega delle Cooperative e la
CGIL controllano milioni di voti. Una quota non cospicua, ma comunque
consistente, di questi voti è sempre andata a sostenere
Bertinotti, che spesso si è mostrato ricattabile a causa di
questa dipendenza. Nel 1995 Rifondazione Comunista non poté
far mancare al governo Dini i suoi voti di fiducia, proprio
perché questa dipendenza gli fu fatta pesare dai dirigenti
della CGIL.
L'entrata nella Sinistra Arcobaleno di due ex-dirigenti DS del calibro
di Mussi e Salvi avrebbe dovuto garantire Bertinotti che l'ulteriore
annacquamento del suo messaggio politico e la rinuncia alla falce e
martello, sarebbero stati comunque compensati da voti gestiti dalla
stessa CGIL e dalla Lega delle Cooperative. Mussi e Salvi hanno invece
recato solo danni, disorientando il tradizionale voto di appartenenza e
di bandiera, e non portando nessuna frazione di voto organizzato. In
più, anche Bertinotti è stato lasciato a secco
dagli ex-colleghi della CGIL. La cosa era persino risaputa, tanto che
il segretario dei Comunisti Italiani, Diliberto, ha colto un pretesto
per rinunciare alla candidatura e non esporsi alla figuraccia di essere
trombato alle elezioni.
In questi giorni furoreggia nelle librerie un altro best-seller che ci
intrattiene sulle magagne dell'altra "casta": i sindacati, che sono
diventati vere e proprie aziende di Stato, che gestiscono grosse quote
di salario operaio ed anche di denaro pubblico. Ora, proprio questa
"casta" non aveva nessun interesse ad affidarsi esclusivamente a
Veltroni e a liquidare definitivamente non soltanto Bertinotti,
Diliberto, Mussi e Salvi, ma persino Boselli.
Una posizione di potere e di privilegio garantita ai dirigenti
sindacali dal controllo di un ente come l'INPS, è oggi
esposta ai pericoli di una privatizzazione, che potrebbe verificarsi
anche a vantaggio di agenzie finanziare internazionali che devono
compensare lo sfuggire di altri business, a causa della crisi
finanziaria di origine statunitense. Di fronte ad un rischio del
genere, avere qualche appoggio in più in Parlamento avrebbe
fatto comodo ai dirigenti sindacali, che invece hanno portato tutti i
voti da loro gestiti ai piedi dell'altare veltroniano.
Mentre i dirigenti della Lega delle Cooperative possono essere stati
convinti a sostenere esclusivamente Veltroni dietro la promessa di
altri affari a cui partecipare, ciò non può
essere avvenuto con i dirigenti sindacali, i quali possono vedersi
sfuggire le loro galline dalle uova d'oro proprio a causa della
crescente invadenza dell'affarismo privato e dalla ingerenza delle
multinazionali.
Nella scelta di presentarsi alle elezioni senza gli alleati
tradizionali, la malafede di Veltroni è stata evidente nel
momento in cui non si è limitato a mollare la cosiddetta
"sinistra radicale", ma ha condannato alla sparizione anche i
socialisti del mite e remissivo Boselli, rispetto al quale non aveva
nessuna differenza "programmatica". Veltroni ha rivendicato
perciò una posizione di monopolio assoluto a sinistra.
Fidarsi di un unico padrone non è saggio, e nessuna "casta"
ha mai consentito volentieri all'accumulo di un tale potere personale.
Oggi si parla sempre della "Storia" intesa come una sorta di categoria
dello spirito, un astratto tribunale che pronuncerebbe sentenze che i
media si incaricano di rivelarci. Nel frattempo, l'esperienza storica -
cioè il ricorrere di certi comportamenti, il verificarsi di
certe costanti - viene tranquillamente ignorata e rimossa. L'esperienza
storica dice che le caste non si comportano così, non si
legano mani e piedi ad un unico padrone, a meno di non esservi
costrette.
Come spesso accade, la denuncia pubblica delle nefandezze di una
oligarchia - di una "casta" -, è conseguente proprio al
declino di quella oligarchia, al fatto che è stata espugnata
e sottomessa da altri poteri, in questo caso il potere
colonialistico degli Stati Uniti.
Infatti si è scoperta la pedofilia dei preti
allorché il potere finanziario del Vaticano era ormai in
declino irreversibile. Quando un Ratzinger - ormai così
artificiosamente pomposo da sembrare il Bonifacio VIII di Dario Fo - si
presenta all'ONU per sostituire i Vangeli con la Dichiarazione
d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America, va a mettere in crisi
proprio i miti di cui si è sempre avvolta la casta
clericale, che non ha mai parlato di "diritti umani" concessi
direttamente dal Creatore, ma ha sempre posto l'enfasi sul proprio
specifico ruolo di mediazione, in quanto rappresentante in Terra di
Cristo.
Il calo di brache - o di sottane - di Ratzinger trova quindi
corrispondenza in altri cali di brache nei confronti del colonialismo
statunitense che si stanno verificando in questo periodo in Italia e in
Europa.
24 aprile 2008