IN EGITTO SI RIAFFACCIA IL TERZOMONDISMO MILITARE?
Alcuni commenti sulle attuali rivolte in Tunisia ed Algeria sono stati improntati a diffidenza, nel timore che, dietro le apparenze del movimento popolare, si celi un tentativo di "rivoluzione colorata" ispirato dagli Stati Uniti. La prudenza nel plaudire a queste rivolte costituisce senza dubbio un atteggiamento opportuno, viste le esperienze di questi ultimi venti anni; d'altra parte, sia nel caso tunisino che in quello egiziano, sembrano mancare le caratteristiche e le coreografie tipiche della "rivoluzione colorata", così come si sono potute riscontrare, ad esempio, nel movimento verificatosi nel 2009 in Iran.
Non siamo infatti di fronte alle solite rivendicazioni occidentalistiche e, in un Paese come l'Egitto, la denuncia della miseria dilagante e l'attacco al presidente Mubarak non possono evitare di mettere sotto accusa la politica di servilismo nei confronti delle multinazionali attuata in questi decenni dal governo egiziano. Risulta molto difficile immaginare che gli interessi delle multinazionali statunitensi possano essere serviti meglio di come abbia fatto Mubarak, né si può concepire una politica estera più appiattita sulle posizioni di USA e Israele di quella dell'attuale leader egiziano; perciò non si vede che vantaggio possano ricavare gli Stati Uniti dal rimuoverlo.
Tra una vera rivoluzione popolare ed un colpo di Stato straniero camuffato da rivolta, vi sono però parecchie gradazioni e possibilità che vanno comunque esplorate. L'idea che in queste situazioni si confrontino le "dittature" da una parte ed il "popolo" genericamente inteso dall'altra, risulta troppo semplicistica, dato che spesso gioca un ruolo determinante anche il personale degli apparati dello Stato, a cominciare dalle Forze Armate.
La sedicente "globalizzazione" non ha soltanto gettato nella miseria le masse popolari, consegnandole alla precarietà ed alla disoccupazione, ma ha anche messo in forse il sistema di garanzie e privilegi delle burocrazie statali. La sedicente "globalizzazione" ha inoltre ben poco a che vedere con l'apertura dei "mercati" e con la mitica "concorrenza"; si tratta in realtà di un gigantesco trasferimento di risorse pubbliche alle multinazionali, in forma di privatizzazioni, di finanziamenti statali e di sgravi fiscali.
In Egitto ed in Tunisia l'esercito ha rappresentato per decenni la base di reclutamento della classe dirigente, quindi anche un fattore di promozione sociale; queste classi dirigenti però, a causa delle privatizzazioni, trovano ormai sempre meno da dirigere. Anche Mubarak proviene dalle Forze Armate e, come pilota di caccia nella guerra del Kippur del 1973, si era costruito un prestigio personale, quanto autentico non sappiamo. La propaganda occidentalistica oggi banalizza il suo ruolo come quello del solito "dittatore", una categoria fuorviante sia in generale, sia in questo caso particolare, dato che Mubarak aveva svolto soprattutto una funzione di mediazione nell'ambito del regime militare. In quest'ultimo decennio la sua crescente abulia e la sua assoluta passività alle direttive statunitensi hanno segnato la rinuncia di Mubarak a quella funzione di mediazione. Anche il suo stile anti-retorico, inizialmente apprezzato in patria dopo gli eccessi retorici di Nasser e Sadat, ha contribuito col tempo a sottolineare la sua assoluta mancanza di iniziativa ed il totale ripiegamento in pratiche di meschino nepotismo. Gli ufficiali che oggi sono dietro Mubarak non vedono soltanto le prospettive di carriera vanificate dal sistema della successione familiare, ma soprattutto dall'incombere delle privatizzazioni anche in campo militare, come del resto avviene in tutto il sedicente Occidente, Italia compresa.
L'atteggiamento tenuto sinora dalle Forze Armate in Tunisia ed Egitto, può costituire una conferma dell'ipotesi che, se non dietro, almeno all'interno dei movimenti di massa giochino un ruolo anche gruppi di ufficiali di carriera. Sin dai tempi di Nasser, gli eserciti dei Paesi arabi svolgono un ruolo politico esplicito e sono anche luoghi di elaborazione ideologica, perciò non ci sarebbe da sorprendersi se queste rivolte fossero un modo in cui gli ufficiali cercano di ottenere l'appoggio popolare alla prospettiva di un colpo di Stato militare.
Il nasserismo non è però l'unica corrente ideologica che attraversa le Forze Armate egiziane, poiché la lunga dominazione britannica, esercitata in forme più o meno dirette, ha lasciato sedimentare anche una notevole componente di affiliazione massonica. Per questo motivo non si può pensare che le Forze Armate egiziane possano costituire un soggetto politico compatto; d'altra parte non lo erano neppure all'epoca del colpo di Stato degli ufficiali nel 1953, che l'anno successivo avrebbe consegnato il potere a Nasser, il vero promotore di tutta l'operazione.
Il fatto che oggi le rivolte non prendano chiaramente posizione contro il colonialismo statunitense, non può essere di per sé considerato un segnale di filo-americanismo, poiché potrebbe ancora trattarsi di una posizione tattica, resa necessaria dalla persistente incertezza dell'esito di un eventuale colpo di Stato. In Europa prevale adesso una lettura democraticistica delle rivendicazioni delle folle egiziane, perciò i media danno spazio alle consuete posizioni elettoralistiche e, di conseguenza, anche a personaggi ambigui, come El Baradey, il cui effettivo ruolo non risulta ben chiaro. El Baradey è uno di quei personaggi che il sedicente Occidente ha eletto a propri beniamini: gli si è affidato il ruolo di poliziotto internazionale nella questione del nucleare iraniano, e gli si è anche elargito un premio Nobel per la pace, il che non depone certo a favore della sua personale trasparenza. L'attuale protagonismo di El Baradey potrebbe quindi indicare un tentativo statunitense di recuperare la situazione a proprio favore, ma non è da escludere anche un'ipotesi contraria, che lo vedrebbe messo avanti tatticamente dagli ufficiali proprio per rassicurare Stati Uniti ed Europa.
Quel che è certo è che oggi nell'esercito egiziano si confrontano sia posizioni terzomondistiche che occidentalistiche. In una situazione analoga, in Portogallo, dopo il colpo di Stato del 1974, il colonnello terzomondista Otelo De Carvalho - forse troppo preveggente per i suoi tempi - fu alla fine emarginato e messo in galera dai militari filo-statunitensi; mentre in Venezuela il colonnello Hugo Chavez, dopo il suo fallito colpo di Stato nel 1992, riuscì ugualmente a prendere il potere grazie alla spinta popolare. Lo stesso Chavez fu poi a sua volta fatto oggetto di un tentativo di controrivoluzione militare nel 2002, ma riuscì a spuntarla.
In questi giorni non sono mancati i confronti tra Egitto e Italia, e ci si è chiesti se movimenti di massa del genere siano ipotizzabili anche in Paesi come il nostro. Anche in Italia le burocrazie dello Stato e le gerarchie delle Forze Armate si trovano minacciate dalle privatizzazioni, e si sono riscontrati molti e chiari segnali di malumore di poliziotti, carabinieri, e militari in genere, nei confronti del governo; malumori che si sono espressi non solo nella non-collaborazione nel fabbricare nuove emergenze di ordine pubblico, ma anche in manifestazioni di piazza piuttosto polemiche da parte dei sindacati di polizia. L'ostilità aperta che il ministro masso-fascista Ignazio La Russa riscuote oggi da parte degli sbirri e dei militari, è diventata incontenibile dopo che i suoi propositi di privatizzazione delle Forze Armate si sono evidenziati. Ciò risulta quantomeno inatteso, data la provenienza fascista dello stesso La Russa, che gli aveva procurato inizialmente fiducia e simpatia fra sbirri e militari.
Da qui ad ipotizzare una sorta di ruolo "rivoluzionario" e terzomondistico delle Forze Armate italiane, o parte di esse, però ce ne corre. Gli interessi di classe e di categoria non si riflettono automaticamente in una coscienza di classe o di categoria. A differenza di quanto accaduto talvolta nei Paesi arabi, in Italia i militari ed i poliziotti non si sono mai considerati come forze popolari, ed hanno coltivato il nostalgismo fascista come la bandiera ideologica di copertura per un pregiudiziale anticomunismo ed antioperaismo. La diffusa e ramificata affiliazione massonica nelle Forze Armate italiane costituisce inoltre un notevole e storico fattore di controllo da parte del colonialismo statunitense.
C'è anche da considerare che il processo di "terzomondizzazione" dell'Unione Europea, innescato sia dagli accordi col WTO del 1995, sia dalla guerra del Kosovo imposta dal presidente Bill Clinton nel 1999, non ha sinora comportato il nascere di una consapevolezza della condizione di colonia a cui sono ridotti Paesi come l'Italia.
L'invadenza persistente della falsa coscienza "Occidentale" fa sì che l'Europa costituisca una colonia del tutto incapace di percepirsi come tale.
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