POVERO MARCHIONNE, RIDOTTO A FARE LA VITTIMA DEL TERRORISMO
E così anche Marchionne è stato costretto a ricorrere all'espediente vittimistico della minaccia terroristica nella speranza di riguadagnare legittimazione, esattamente come un qualsiasi esponente del ceto politico italiano. Si tratta di un gravissimo segnale di debolezza, che segue intere settimane in cui, mentre l'informazione ufficiale e gli esponenti dei principali partiti osannavano Marchionne, è andato invece crescendo il sostegno verso la FIOM.
Gli appelli che numerosi intellettuali hanno scritto e firmato in segno di solidarietà alla FIOM, si sono basati su argomenti reali ma insufficienti, come la difesa dei diritti del lavoro e della rappresentatività sindacale, senza che venisse posto in evidenza il contesto, cioè lo strangolamento coloniale a cui l'Italia è attualmente sottoposta da parte del Fondo Monetario Internazionale e delle multinazionali. Ciononostante la mobilitazione degli intellettuali, promossa dalla rivista "Micromega", non può essere considerata con disprezzo o sufficienza, poiché risulta indicativa del potenziale di coinvolgimento sociale che può suscitare un sindacato non appena esca dalle ambiguità e dai cedimenti. Non a caso la CGIL ed il suo segretario Camusso, dopo settimane in cui sembravano sprofondare nelle sabbie mobili del Partito Democratico, hanno dovuto rompere gli indugi e accettare di sostenere lo sciopero generale indetto dalla FIOM per il 28 gennaio.
Paradossalmente il tramonto del fascino divistico di Marchionne, è stato messo in evidenza proprio dagli ultimi interventi di opinionisti al suo seguito, come quello dell'ex commissario europeo Mario Monti sul "Corriere della Sera". Per esaltare le virtù di riformatore dell'Amministratore Delegato della FIAT, Monti gli ha fatto addirittura l'onore di paragonarlo alla ... Gelmini!
L'abbraccio di un personaggio come la Gelmini, in termini di immagine, risulta più mortale di una sventagliata di mitra. Durante i giorni del ricatto di Pomigliano, Marchionne si esibì in ridicole imitazioni del ministro Brunetta, lanciando inconsistenti e pretestuose accuse di assenteismo ai lavoratori della FIAT del Meridione d'Italia. Nessuno però nell'informazione ufficiale si sognò allora di osare un accostamento fra Marchionne e Brunetta, sebbene lo stesso Brunetta in quel periodo si desse da fare per rivendicare il copyright di quello stile comunicativo a base di insulti gratuiti. Oggi invece a Marchionne tocca persino di essere appaiato col ministro Gelmini, e questo capita in un articolo apologetico sul "Corriere della Sera". La caduta degli dei!
Da segnalare il tentativo dell'ex segretario del Partito Democratico, Walter Veltroni, di rilanciare l'asse con Marchionne, un asse che nel giugno ultimo scorso appariva in auge. Il tentativo però si è arenato in un documento, del quale anche i più affezionati supporter di Veltroni hanno dovuto confessare di non aver capito quasi nulla. Le sole due cose comprensibili del documento sono risultate di una puerilità sconcertante. C'è il solito slogan che non bisognerebbe difendere, ma "cambiare", come se il cambiamento fosse un valore in sé. In tal caso anche l'essere ammazzati sarebbe meglio che rimanere vivi, dato che comunque la morte rappresenterebbe un "cambiamento".
Del resto "cambiare" le regole del mercato del lavoro non ha portato bene: le statistiche ufficiali ci hanno appena rivelato che, a sette anni dalla Legge 30/2003 (la cosiddetta Legge Biagi), la disoccupazione giovanile ha toccato il livello record. Quindi lo slogan "meglio un lavoro precario che nessun lavoro" costituiva l'ennesima falsa alternativa. La precarizzazione non ha aumentato i posti di lavoro, però ha determinato un crollo degli investimenti in innovazione tecnologica e formazione del personale, con il risultato di far regredire tutto il sistema industriale. Nel centrosinistra Veltroni è stato il maggiore difensore della Legge 30, anzi proprio colui che ne ha impedito l'abolizione da parte dell'ultimo governo Prodi. "Cambiamento" è diventato in effetti sinonimo di colonizzazione, perciò Veltroni avrebbe bisogno di cambiare vocabolario.
Altrettanto puerile è che Veltroni rinfacci alla FIOM il fatto che Marchionne la stia escludendo dalla rappresentanza di fabbrica in base alle stesse norme che la FIOM aveva voluto per tagliare fuori il sindacalismo di base. In realtà questa esigenza di salvare a tutti i costi la rappresentanza di fabbrica sta ossessionando la Camusso, ma non Landini. Il problema non riguarda la rappresentanza a Mirafiori o di riuscire ad arraffare il prelievo della quota sindacale sulle buste-paga, ma la rappresentatività in generale. Non si tratta di tutelare le minoranze, come minimizza D'Alema, ma di tutelare le maggioranze. In base al diktat di Mirafiori nulla più impedirà che un padrone possa firmarsi gli accordi che vuole con il suo sindacato d'azienda, anche se questo sindacato non avesse nessun iscritto, per poi imporre ai lavoratori un sì, con il ricatto del "se no, me ne vado". A questo punto neanche più niente impedirebbe al padrone di imporre l'iscrizione al sindacato aziendale ai lavoratori per poter loro estorcere anche la quota dalla busta-paga; ciò in base al ricatto velato che chi non si iscrivesse diventerebbe automaticamente sospetto di velleità ribellistiche.
Tra l'altro il sindacalismo di base non si è dimostrato affatto vincolato a puntigli di ripicca e rivalsa sulla FIOM, tanto che la scelta dei COBAS di convocare lo sciopero generale per il 28 gennaio ha contribuito in modo decisivo a smuovere la CGIL dalle sue ambiguità ed a convocare a sua volta lo sciopero generale, ciò a causa del timore di trovarsi scavalcata. Anche nell'impedire che il referendum di Pomigliano divenisse una resa o una disfatta operaia, l'attivismo dei COBAS si è rivelato determinante, quindi oltre venti anni di sindacalismo di base non sono passati invano.(1)
Il Partito Democratico sta condizionando tutta la sua linea all'esito del referendum di Mirafiori, ma se quello è un referendum, lo sarebbe anche quello del rapinatore che ti intima "o la borsa o la vita". Invece la FIOM ha già stabilito il calendario delle sue iniziative di lotta indipendentemente dal referendum, tanto è vero che lo sciopero generale è già fissato per il 28 gennaio. Una vittoria dei sì al referendum non costituirebbe una sconfitta per la FIOM, mentre sarebbe una disfatta/figuraccia per il PD nella eventualità che vincessero i no. La vittoria dei sì però si qualificherebbe come un mero successo della prepotenza, della quale il PD sarebbe visto come complice. E in questa situazione assurda il vertice del PD ci si è ficcato tutto da solo.
Veltroni si è arrampicato inutilmente sugli specchi, dato che la improponibilità del "Veltracchionne" è risultata evidente dopo il golpe natalizio di Marchionne, cioè quello pseudo-"accordo" di Mirafiori che metteva tutti davanti al fatto compiuto e disarticolava il sistema delle relazioni industriali in Italia, scavalcando del tutto il ruolo istituzionale di governo e parlamento. Il contratto collettivo ha sempre tutelato poco il lavoro, in compenso ha tutelato le piccole e medie imprese dal pericolo del sindacalismo giallo/malavitoso gestito dalle multinazionali. I sindacati gialli e malavitosi non servono alle multinazionali soltanto per garantirsi la disciplina interna alle proprie fabbriche, ma anche come arma per intimidire e ricattare i piccoli concorrenti. In base ai discorsi di Pietro Ichino (anche lui "vittima del terrorismo" ad honorem), si capisce che è proprio questo il risultato che si sta perseguendo. Ma Ichino ammette esplicitamente che il benessere delle multinazionali costituisce la sua unica preoccupazione. L'Authority dell'Antitrust ovviamente non ha niente da obiettare riguardo alle forme di concorrenza sleale che si potranno verificare in assenza del contratto collettivo; ma non c'è da stupirsene, dato che, ad onta del suo nome, l'Antitrust è stata inventata da Giuliano Amato appunto per favorire le concentrazioni, non certo per contrastarle.
Il più sollecito a dare man forte alla recita di Marchionne/vittima del terrorismo ad honorem, è stato il segretario della CISL Bonanni, cioè un altro personaggio che ormai regge la sua immagine pubblica soltanto sul vittimismo. In tutti questi mesi di piagnistei anti-FIOM, Bonanni non si è nemmeno scomodato a spiegare cosa ci stia più a fare un sindacato confederale come la CISL se si abolisce il contratto collettivo di lavoro. CISL e UIL avevano presentato come una grande vittoria il contratto collettivo firmato senza la FIOM appena un anno fa con Federmeccanica; ma oggi quel contratto sarebbe già da cestinare, perché a Marchionne non piace. Anzi, persino Federmeccanica non serve più a niente, così la piccola/media impresa allo sbando avrà Marchionne come unico duce e condottiero. Ma allora, se tutto si riduce a obbedire ciecamente a Marchionne, a che serve firmare "accordi"? Perché non sostituirli direttamente con un giuramento di fedeltà al padrone? La messinscena sindacale serve solo per continuare ad estorcere le quote sindacali ai lavoratori?
Il fatto è che i vertici di CISL e UIL sanno benissimo che, se passa il diktat di Mirafiori, il sindacalismo confederale verrebbe cancellato, quindi stanno già pensando ad una propria sistemazione altrove, e devono essergli state fatte parecchie promesse e rassicurazioni a riguardo. La burocrazia della FIOM invece continua ad affidare la propria sorte personale alla sopravvivenza dell'organizzazione. Se si tratta solo di un calcolo per salvare le proprie carriere sindacali, comunque ciò implica una base di serietà. Può aver contribuito a questa ritrovata serietà il fatto che la liquidazione elettorale di Rifondazione Comunista abbia sortito indirettamente l'effetto di preservare negli ultimi due anni il gruppo dirigente della FIOM dalle infezioni parlamentaristiche. Probabilmente Veltroni non aveva pensato a questo possibile effetto indiretto di radicalizzazione della FIOM, quando nel 2008 ha messo in atto la liquidazione elettorale di RC.
Le sorti mediatiche di Marchionne sono ora in gran parte legate al sostegno che gli provenga dalle "Forze dell'Ordine" nell'avallare la messinscena della minaccia terroristica. Ma per il momento i segnali non sono incoraggianti per Marchionne, poiché la polizia ha già ridimensionato l'entità della presunta minaccia.
I commenti immediati dei giornalisti televisivi agli slogan corredati di stella a cinque punte, sono stati impagabili: secondo loro gli inquirenti stavano analizzando chi potesse aver concepito e scritto una frase arguta come "Marchionne fottiti!"; oppure quale gruppo potesse aver sviluppato un' analisi così profonda :"non siamo noi a dover diventare come i lavoratori cinesi, ma i lavoratori cinesi a diventare come noi". Con queste premesse persino gli inquirenti avranno rinunciato a fare l'ennesima figura patetica, magari col rischio di scoprire che non si trattava di una stella a cinque punte delle Brigate Rosse, ma di un pentagono massonico dipinto personalmente dal massone Piero Fassino.
Forse gli inquirenti sarebbero stati persino costretti a rivelare al mondo che l'autore di questi improbabili raffronti razzistici con la Cina era nientemeno che Pierluigi Bersani, a cui forse nessuno ha mai detto che gli operai cinesi non sono affatto più remissivi di quelli europei, anzi sono impegnati in dure lotte salariali.(2)
Bersani sembra ignorare anche che, nel sedicente "mercato globale", la Cina compete facendosi forte di un sistema economico basato sulle partecipazioni statali e sulle banche pubbliche; perciò non si capisce perché gli operai italiani debbano invece rimanere disoccupati se i padroni privati se ne vanno. (3)
Inoltre non è un buon momento per le relazioni tra il governo e le cosiddette Forze dell'Ordine, poiché i tagli e le privatizzazioni nella pubblica amministrazione stanno colpendo duramente poliziotti, carabinieri e finanzieri. In queste ultime settimane i sindacati di polizia hanno già inscenato tre manifestazioni di piazza contro Berlusconi, il quale si è ormai così sfacciatamente identificato con la causa di Marchionne da rischiare di tirargli addosso il suo discredito.
Anche il feeling di due anni fa tra le Forze Armate ed il ministro della Difesa La Russa appare un pallido ricordo, poiché si è scoperto che lo stesso La Russa, da bravo figlioccio dell'affarista Salvatore Ligresti, pensa solo a privatizzare. Dopo la pagliacciata dell'esibizione del ministro della Difesa in tuta mimetica, La Russa è stato costretto a rimangiarsi con la coda tra le gambe le sue sfuriate contro lo Stato Maggiore, da lui accusato di aver mentito sulla morte dell'alpino in Afghanistan. Come se non fosse compito istituzionale dei vertici militari il mentire sistematicamente sulle operazioni militari. Sembra ormai che, per uno come La Russa, la propria personale pavidità sia rimasto l'ultimo, disperato, aggancio con la realtà.
Che un governo di destra si trovasse così isolato e screditato rispetto al contesto sbirresco/militare che avrebbe dovuto essergli consono e familiare, costituisce uno dei dati inediti di questo periodo. Senza l'appoggio delle burocrazie in uniforme, la riedizione di una nuova pseudo-emergenza terroristica risulterebbe molto problematica, perciò Marchionne rischia di ridursi anche lui a lanciarsi da solo in faccia delle statuette della Mole Antonelliana.
(1) http://www.cobas.it/
(2) http://archiviostorico.corriere.it/2010/luglio/10/Cina_Toyota_apre_agli_aumenti_co_9_100710048.shtml
(3) http://www.cattolicanews.it/3356.html
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