Trump non ci ha messo tanto a smentire la sua narrativa di “pacificatore” e di uomo d’affari, infatti si è già invischiato in una politica di aggressioni contro lo Yemen e di provocazioni contro l’Iran, rischiando disastrosi effetti sul piano commerciale. Di conseguenza non ha molto senso la storiella su un’Europa che non si rassegnerebbe alla pace incombente. I nonsensi dell’Unione Europea ci sono ma vanno individuati altrove. Molti commentatori hanno giustamente contestato al piano “Rearm Europe” presentato dalla Commissione Europea di mettere il carro davanti ai buoi, cioè di parlare di soldi senza preventivamente stabilire cosa farci; si tratterebbe quindi di un’operazione puramente finanziaria, priva del sottostante di una strategia militare e di un modello di forze armate. Il dibattito “culturale” a riguardo non va oltre le banalità sui giovani smidollati e inadatti alla guerra; anche se l’esperienza dell’ascolto rovescia il luogo comune, infatti più sono smidollati e più manifestano propositi bellicisti.
La vaghezza del
piano di riarmo europeo, lanciato con tanto tambureggiamento mediatico dalla von der Leyen, però sta soprattutto nell’aspetto finanziario. Si tratterebbe di un generico permesso ai vari Stati di derogare dal Patto di Stabilità per complessivi seicentocinquanta miliardi. In più ci sarebbero centocinquanta miliardi di debito comune, in stile Recovery Fund (alias “Next Generation EU”). La differenza abissale col Recovery Fund sta però nel fatto che quel piano si sviluppò in un periodo di inondazione di liquidità da parte della Banca Centrale Europea, la quale aveva avviato vari programmi di acquisto di titoli pubblici e privati con la motivazione, o col pretesto, della pandemia. In altri termini, l’indebitamento contratto in epoca psicopandemica era a bassi tassi di interesse ed in gran parte nei confronti della BCE. Andando al sodo, il “Rearm Europe” si riduce ad una dichiarazione d’intenti senza impegni: “spenderò in armi ottocento miliardi, se e quando me li presteranno e sempre che il tasso di interesse sia abbordabile”. Il segretario della NATO, Mark Rutte, pur non meno delirante della von der Leyen, almeno sui soldi era stato un po’ più preciso, esortando i governi europei a trovare risorse finanziarie per il riarmo tagliando su sanità e previdenza sociale. Sfrondato dall’enfasi retorica e dalla suggestione mediatica, il “Rearm Europe” in definitiva si rivela un passo indietro in termini di effettiva determinazione a riarmarsi.
I media si sono impegnati a reggere il gioco e a cercare di vendere persino l’aria fritta per una grande novità, come quando la von der Leyen ha parlato della possibilità di
utilizzare i fondi per lo sviluppo regionale per spese militari. In realtà ciò avviene da sempre, come sa chiunque abbia seguito
la vicenda della nuova base NATO di Licola, frazione di Giugliano di Napoli. Le spese per le infrastrutture necessarie a rendere operativa la base militare sono state sostenute in gran parte dalla Regione Campania attingendo ai fondi FAS.
Anche dal punto di vista delle pubbliche relazioni, il “Rearm Europe” si dimostra piuttosto difettoso. Non solo e non tanto perché il riarmo sarebbe impopolare, dato che esiste pure una parte di pubblica opinione attratta e affascinata dai richiami bellicisti. Il vero problema è che il debito è debito, quale che ne sia lo scopo, perciò quando la von der Leyen rilascia una licenza a indebitarsi oltre i parametri regolamentari, finisce inevitabilmente per dare ragione ai cosiddetti “populisti”, i quali sostengono da sempre che i vincoli del Patto di Stabilità sono feticci privi di fondamento economico, inventati in modo arbitrario per essere funzionali esclusivamente all’ingerenza esterna nei bilanci dei singoli Stati.
Si può comprendere il motivo per il quale la Meloni appare così stravolta e non riesca a far altro che farfugliare e arrampicarsi sugli specchi. Il “Rearm Europe” è un guscio vuoto dal punto di vista finanziario ed una debacle dal punto di vista comunicativo. La Meloni ha sempre coperto il suo nulla politico con l’abilità nelle pubbliche relazioni, ma stavolta l’impresa è al di là delle sue capacità di imbonimento. Eppure occorreva veramente poco per vendere un po’ meglio questa patacca alla pubblica opinione. Bastava usare la parola “sicurezza” invece che riarmo ed alludere alla costruzione di un ombrello anti-missile, cioè ad un sistema integrato di contraerea europea; poi si sa che le rampe possono essere utilizzate sia per missili di contraerea, sia per missili di attacco sul suolo nemico. Neanche era necessario sparare prematuramente cifre altisonanti e terroristiche per i contribuenti, dato che gli interessi sul debito vanno pagati imponendo tasse. Ma la von der Leyen e la Kallas sono state irremovibili nell’ostinazione di conferire al loro fumoso piano l’aspetto più truce e spendereccio possibile. La Meloni non ha potuto sottrarsi al voto favorevole perché altrimenti sarebbe stata bollata come “putiniana”.
Il disastro dell’Unione Europea nelle pubbliche relazioni risulta clamoroso proprio nell’abuso che si fa dell’accusa di connivenza con la Russia. Ciò comporta effetti deleteri per il più importante e costoso apparato di pubbliche relazioni dell’establishment euro-americano, cioè l’elettoralismo, di solito chiamato pomposamente “democrazia”. Il meccanismo elettorale funziona da sempre come ammortizzatore nei confronti delle spinte anti-establishment. Nel 2018 si è registrato il successo elettorale dei due partiti più radicalmente critici nei confronti dell’establishment europeo, cioè i 5 Stelle e la Lega. Alla fine della legislatura entrambi questi partiti stavano appoggiando un governo presieduto dalla maggiore icona dell’establishment europeo, Mario Draghi. L’ammortizzatore elettorale quindi ha funzionato ed anche bene. Oggi in Romania viene escluso dalle elezioni un candidato poiché sarebbe “filo-russo”. Ma anche il russofono Zelensky in Ucraina era considerato un candidato filo-russo, ed era stato eletto sulla base delle promesse elettorali di porre fine alla guerra civile in Donbass e di consentire l’uso della lingua russa; poi Zelensky ha fatto l’esatto opposto. Gli elettori spesso ci mettono molto tempo prima di realizzare che sono stati bidonati, dato che si determina una confusione tra la persona che si è votata e le sue promesse elettorali; magari nel frattempo ci si è affezionati alla persona e si finisce persino per giustificare i suoi tradimenti. Non esiste apparato di polizia che possa uguagliare l’efficacia dell’elettoralismo come vanificatore del dissenso. Eppure Carlo Calenda oggi vorrebbe rinunciare all’ammortizzatore per passare addirittura ad uno “scudo”; infatti propone di istituire per legge uno
“scudo democratico”, in modo da formalizzare e perpetuare quanto avvenuto in Romania, cioè escludere dalle elezioni i candidati russofili. Ma, volendo essere pignoli, bisogna considerare che un subdolo come Putin potrebbe aver camuffato i suoi candidati da russofobi; quindi neppure Calenda sarebbe immune dal sospetto.