Chi non è convinto dalla versione ufficiale sui massacri di civili attribuiti ad Hamas, fa benissimo ad avere dei dubbi, dato che i precedenti storici di “fuoco amico” da parte israeliana sono piuttosto eclatanti e documentati, sebbene del tutto ignoti all’opinione pubblica. Il cosiddetto
”incidente” della USS Liberty avvenne in data 8 giugno 1967, in piena “guerra dei sei giorni”. Aerei e cacciatorpediniere israeliani compirono più attacchi contro una nave della Marina statunitense che navigava in acque internazionali effettuando intercettazioni per conto della National Security Agency. Gli attacchi israeliani provocarono trentaquattro morti e centosettantuno feriti tra i marinai americani. Aerei statunitensi, che erano stati mandati a difesa della USS Liberty, furono richiamati dal segretario alla Difesa McNamara e dal presidente Johnson. Secondo il rapporto ufficiale, redatto dalla CIA e reperibile negli archivi del governo statunitense, l’attacco fu un semplice “errore” di valutazione da parte di Israele, che aveva creduto si trattasse di una nave egiziana.
Paradossalmente l’ipotesi dell’errore è persino più inquietante di quella dell’attacco intenzionale, viste la ferocia e l’insistenza dell’azione israeliana, per di più in un contesto nel quale l’eventualità di incontrare navi statunitensi o britanniche era tutt’altro che remota. Secondo
la testimonianza dei superstiti della USS Liberty l’attacco israeliano configurò gli estremi del crimine di guerra, poiché furono mitragliate persino le zattere di salvataggio che l’equipaggio americano aveva calato in mare. Inquietante fu anche l’inerzia pluridecennale del Congresso USA, che non effettuò una propria inchiesta sull’accaduto, limitandosi a decorare il comandante della nave. Ancora più sconcertante fu il silenzio dei media americani e occidentali sulla sorte della USS Liberty, cosicché l’epopea sull’eroico Israele della guerra del 1967 non subì alcuna macchia. Se i media non riferiscono neanche fatti accertati e documentati negli archivi ufficiali, non ha senso prenderli sul serio quando ci narrano di stragi di civili da parte di Tizio o di Caio.
Sebbene nel 1967 Israele fosse già un alleato degli USA, il comportamento remissivo di Johnson e McNamara rimane difficilmente spiegabile, dato che tra alleati ci sono comunque gerarchie da rispettare; perciò, se un alleato minore si allarga troppo pensando di cavarsela con un “oops!”, l’alleato maggiore di solito lo ridimensiona, magari motivando a sua volta la propria reazione con un altro “oops!”. Il fatto che ciò non sia avvenuto, ha rappresentato oggettivamente un via libera ad Israele per qualsiasi altro crimine di guerra. Ci si può anche domandare se Israele sia davvero un “alleato” esterno degli USA, oppure un avamposto coloniale, la diretta emanazione di una lobby d’affari interna all’oligarchia statunitense. L’unica certezza riguardo ad Israele è infatti
il costante flusso di denaro che vi arriva dagli Stati Uniti, della cui entità si stupisce persino la BBC. Molti hanno notato che nel suo ultimo discorso ufficiale il presidente Biden si è richiamato alla retorica di Madeleine Albright sugli USA come nazione indispensabile. In tal modo però non si va al nocciolo della dottrina Albright. Si dice spesso che tutti sono utili e nessuno è indispensabile; ma, in fondo, ognuno ha il diritto di considerarsi indispensabile, semmai il vero problema è che nessuno è utile. Il punto è che Biden agisce come un venditore di polizze che adesca il merlo proponendogli un affare: investi duecento miliardi di dollari di pubblico denaro per respingere la minaccia di Putin e di Hamas. Mentre Mussolini si limitava a dire “molti nemici, molto onore”, la dottrina della Albright e dei Neocon è: “molti nemici, molti soldi”.
Ai soldi va anche sacrificata la possibilità di una vera difesa e di una vera sicurezza, infatti
il grilletto facile delle forze armate israeliane non fa alcuna discriminazione etnica, per cui i militari israeliani non esitano a spararsi tra loro e gli incidenti a riguardo sono numerosi e frequenti. Quando le vittime del “fuoco amico” sono militari, vengono effettuate delle inchieste ufficiali di cui si riesce qualche volta a sapere qualcosa. Non è molto probabile invece che vi siano delle ammissioni ufficiali quando il “fuoco amico” faccia vittime civili di nazionalità israeliana, poiché contrasterebbe con la narrazione epica di cui sopra.
Quel che risulta certo è che
le “regole di ingaggio”, cioè l’autorizzazione ad aprire il fuoco, sono sempre più “permissive”. Da qualche anno i militari israeliani hanno avuto licenza di sparare non solo quando vi sia il sospetto di attacchi o infiltrazioni nemiche, ma anche per sventare semplici furti nei depositi e nei magazzini dell’esercito. A parte il fatto che i furti nei depositi militari di solito sono perpetrati proprio da militari, dal punto di vista della disciplina interna all’esercito una norma del genere è disastrosa, poiché la formula “l’avevo preso per un ladro” può essere utilizzata come comodo alibi per attuare regolamenti di conti tra commilitoni.
Questi magazzini dell’esercito in effetti devono essere spaventosamente vuoti, visto che per dotare i riservisti israeliani di protezioni personali come elmetti e giubbotti antiproiettile, si è dovuto addirittura ricorrere ad
una colletta internazionale. La logica della proxy war non è esclusiva dei governi, ma ha assunto dimensioni di massa: versiamo tutti un generoso obolo per consentire all’esercito israeliano di invadere Gaza. I soldati israeliani vengono quindi adottati a distanza, come capita ai bimbi africani; in cambio però i soldati devono sentirsi moralmente impegnati ad ammazzare qualche arabo per conto del committente. Purtroppo la moralità è in decadenza e tutto quel ben di Dio di attrezzatura militare potrebbe essere rubato e finire al mercato nero.
Le situazioni sono sempre complicate, ed anche nel caso di Gaza c’è il risvolto dei
potenziali affari minerari. Gaza è prospiciente su un mare che ospita un ricco giacimento di gas naturale. Per ora questa risorsa rimane inutilizzata e vari soggetti, tra cui l’Egitto, cercano di accampare diritti.
Certamente la questione del gas ha la sua importanza, ma va rilevato che l’attacco a Gaza rientra pienamente nello schema comportamentale classico di espansionismo territoriale da parte di Israele. In
una recente intervista il presidente egiziano Al-Sisi ha delineato molto chiaramente questo schema quando ha avvertito che il tentativo israeliano di spingere i palestinesi di Gaza verso il deserto della penisola del Sinai, può determinare una nuova guerra tra Israele e l’Egitto. Spostando i palestinesi nel Sinai, chiaramente ci si spingerebbe anche Hamas; perciò Israele, dopo aver presa la Striscia di Gaza, potrebbe tra un po’ di tempo usare eventuali attacchi di Hamas come pretesto per invadere ed, in nome della propria sicurezza, annettersi di nuovo quel Sinai che ha lasciato nel 1979, in cambio di un sacco di soldi da parte dell’allora presidente USA Jimmy Carter. Per Israele tornare nel Sinai significherebbe controllare nuovamente la grande risorsa della zona, cioè il Canale di Suez.