La scorsa settimana il ministro dell’Economia Tremonti è stato oggetto degli strali di molti opinionisti, che lo hanno messo alla berlina per la sua pretesa di uscire dalla versione ufficiale sull’attuale aumento del prezzo del petrolio. Secondo Tremonti, gli aumenti sarebbero tali da non poter essere attribuiti al “mercato”, con ciò prospettando la possibilità che dietro vi siano movimenti speculativi mirati.
A causa di queste affermazioni del ministro, gli opinionisti ufficiali - facendo ricorso a citazioni manzoniane approssimative e sconclusionate, che denotano memorie scolastiche molto confuse - hanno arruolato anche Tremonti nel novero dei “complottisti”, decretando il definitivo discredito dell’inventore della “finanza creativa”.
Nel caso di Tremonti i media stanno attuando una tecnica comunicativa che costituisce il rovescio di quella della famosa fiaba dei vestiti dell’Imperatore. Nella fiaba è l’innocenza di un bambino che riesce a trascinare tutti a riconoscere l’evidenza che il re è nudo, mentre in questa circostanza una evidenza viene coperta attribuendo ad una figura goffa e velleitaria come l’attuale ministro dell’Economia il compito di proclamarla.
La ridicolizzazione di Tremonti consente perciò di ridicolizzare qualunque critica nei confronti del “mercatismo” dominante. In questa situazione, Tremonti sta al gioco, non dice nulla di concreto che possa confutare i suoi critici, nel frattempo raccoglie il consenso di coloro che sono allarmati per gli esiti della cosiddetta “globalizzazione”. L’importante è che la discussione rimanga sul piano astratto degli slogan, come appunto sono il “mercato” e la “globalizzazione”, senza riferimento a quanto sta accadendo effettivamente nel frattempo.
Il paradosso mediatico dei giorni scorsi è stato infatti che mentre Tremonti veniva deriso per aver osato avanzare i suoi timidi dubbi sulle cause ufficiali dell’aumento del petrolio, le pagine dei giornali e i servizi radiotelevisivi erano pieni delle “notizie” sulle esercitazioni delle forze armate iraniane e sul lancio di missili, che, sempre secondo i media, sarebbero puntati su Israele. Ciò ha ulteriormente legittimato agli occhi della pubblica opinione l’ipotesi di un attacco “preventivo” all’Iran, che scongiuri la sua molto presunta minaccia missilistico-nucleare.
L’allarme per queste “notizie” ha determinato, manco a dirlo, un nuovo aumento del prezzo del petrolio, dato che nell’area che comprende Iran, Iraq e Arabia Saudita si concentrano la maggior parte delle risorse petrolifere del pianeta. Sono ormai anni che USA e Israele prospettano come imminente un attacco all’Iran, e proprio questa prospettiva determina una crescita inarrestabile dei prezzi del petrolio. La svalutazione del dollaro, per quanto sensibile, non è in grado di giustificare un petrolio che si avvia al prezzo di duecento dollari al barile, mentre la minaccia di una destabilizzazione dell’intera area dei grandi giacimenti petroliferi sta di fatto spingendo molti acquirenti a garantirsi scorte e riserve.
Il legame diretto tra le minacce di attacco all’Iran e l’aumento del prezzo del petrolio, proprio perché evidente, viene sistematicamente oscurato attraverso il richiamo agli slogan della scienza/mitologia economicistica, gettando in pasto alla pubblica opinione uomini di paglia come il ministro Tremonti.
In realtà proprio le esercitazioni della scorsa settimana hanno mostrato che l’Iran non dispone di una forza militare che gli consenta di costituire una minaccia al di fuori dei suoi confini, e l’unico aspetto notevole è risultato l’abilità dei tecnici iraniani nel mantenere in funzione ordigni obsoleti e antidiluviani. I missili che la stampa e la televisione occidentale hanno presentato come armi micidiali, si sono rivelati essere poco più avanzati delle V2 della seconda guerra mondiale, e certamente non in grado di portare delle testate nucleari di cui, peraltro, l’Iran non potrebbe in nessun caso disporre prima di qualche decina d’anni. L’articolazione territoriale dell’esercito iraniano ha inoltre confermato quanto già si sapeva, e cioè che un’invasione dell’Iran comporterebbe da parte di USA e Israele un impiego di mezzi e uomini di cui non dispongono.
L’unica vera notizia è quindi che l’Iran appare completamente esposto ad un attacco aereo, dato che la Russia non ha ritenuto di rifornirlo di batterie di missili antiaerei. Se il governo russo avesse deciso di farlo, anche questa ipotesi del bombardamento dell’Iran sarebbe caduta, e perciò il prezzo del petrolio avrebbe cessato di aumentare, cosa che al governo russo però non converrebbe affatto, dato che oggi l’Europa è sempre più dipendente dal gas e dal petrolio della Russia. Anche dire “governo russo” oggi è diventato un eufemismo, dato che si può direttamente chiamare la cosa con il suo nome: Gazprom, la compagnia commerciale del petrolio e del gas russi. Allo stesso modo il vero governo in Francia è la Total, e in Italia l’ENI.
Alimentare i timori di un bombardamento sull’Iran costituisce perciò un affare di cui partecipano gli USA - che ora dispongono a piacimento dei giacimenti iracheni -, la Russia, praticamente tutte le multinazionali del petrolio, e lo stesso Iran.
L’Iran, oltre che di petrolio, dispone dei maggiori giacimenti di gas del mondo, e può vendere l’uno e l’altro a prezzi sempre più alti, quindi riscuote un vantaggio immediato per i rischi che sta correndo.
Si è anche detto che l’aumento dei prezzi del petrolio renderebbe conveniente rivolgersi a fonti alternative, ma questo discorso è rimasto allo stato di enunciazione, dato che come fonte alternativa è stato individuato il nucleare, il quale oltre a comportare costi proibitivi, non consentirebbe di sganciarsi dal petrolio che parzialmente, ed entro un lasso di tempo molto lungo, calcolabile ottimisticamente sui decenni. Il nucleare non costituisce perciò una fonte alternativa, ma solo l’occasione per un ulteriore saccheggio del denaro pubblico, mentre la dipendenza dal petrolio a prezzi crescenti rimarrebbe inalterata. La spesa per il nucleare infatti impedisce non soltanto di puntare su vere fonti alternative, ma blocca anche la ricerca e l’investimento su ciò che rappresenta davvero il futuro, e cioè lo sviluppo delle potenzialità dell’elettrotecnica a fini di risparmio energetico.
Queste tecnologie sono praticamente bloccate ad un secolo fa, quando gli interessi affaristici costituitisi attorno al petrolio hanno preso il sopravvento su qualsiasi altro interesse economico. La prima guerra mondiale è stata anche la prima grande guerra per il petrolio, in cui ci si è disputati le spoglie dell’Impero Turco Ottomano, cioè degli attuali territori della Arabia Saudita e dell’Iraq. Pochi anni prima in Iran era stato fondato da affaristi inglesi il primo nucleo di quella che avrebbe costituito la prima grande Corporation petrolifera, la British Petroleum, che sarebbe diventata il vero governo britannico.
A distanza di novanta anni dalla fine di quello scontro mondiale, la Storia ruota ancora attorno agli stessi territori ed agli stessi interessi affaristici, anche se gran parte della opinione pubblica è stata convinta che i problemi siano l’integralismo islamico, il terrorismo o lo scontro di civiltà.
17 luglio 2008
|