Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il 23 dicembre del 2011 i media mainstream avrebbero voluto festeggiare l’approvazione definitiva in senato del Decreto Salva Italia del governo Monti. Si trovarono invece a dover parlare di un nuovo picco dello spread che aveva sfondato quota 500 ed era arrivato quasi al record raggiunto sotto il precedente governo del Buffone di Arcore. Gli ingrati “Mercati” quindi non si erano per niente lasciati “rassicurare” dalla super-manovra. I media, per difendere il loro idolo di allora, Mario Monti, furono costretti a spiegare che la colpa era della Banca Centrale Europea che aveva di colpo cessato di acquistare BTP, cosa che faceva già da molto prima del varo ufficiale del Quantitative Easing. Appunto, i capitali se ne infischiano delle manovre “lacrime e sangue” e delle boutade di questo o quell’esponente del governo: i capitali si limitano a seguire i capitali.
Un’altra cosa che già a quei tempi avrebbe dovuto essere ben chiara è che lo spread non aveva cause solo internazionali. Oggi che il debito pubblico italiano è ritornato per il 70% in mani italiane, lo spread continua a salire. La speculazione sul debito pubblico non è un problema solo internazionale ma soprattutto interno.
Ed è sempre in Italia che la lobby della deflazione ha storicamente una sezione molto combattiva e fanatica. Nel 1947 arrivarono gli aiuti americani del Piano Marshall. Il ministro responsabile della politica economica era allora il “rigorista” Luigi Einaudi, famoso per aver proposto l’abolizione della tredicesima mensilità. Einaudi detenne tra il 1946 ed il 1948 una concentrazione di cariche e di funzioni senza precedenti e senza ulteriori esempi successivamente. Lo stesso Einaudi ammise candidamente in un’intervista che solo a causa delle pressioni statunitensi la parte finanziaria di quegli aiuti sarebbe stata utilizzata non per raggiungere il pareggio di bilancio bensì per investimenti in infrastrutture. Einaudi ammetteva che sì, era la cosa giusta da fare, ma il dato rimaneva: la lobby interna della deflazione era stata battuta da una ingerenza imperialistica. Non a caso nel 1948 al deflazionista Einaudi furono tolte tutte le competenze dirette in materia economica eleggendolo Presidente della Repubblica. È ovvio che la lobby italiana della deflazione era nata come sponda di precedenti ingerenze imperialistiche, ma c’era voluta un’altra ingerenza imperialistica per farla retrocedere, almeno momentaneamente.
Il Piano Marshall ha contributo a creare il mito di un impero americano disposto a sacrificare i suoi interessi commerciali in una più ampia visione strategica. In realtà non si trattava di visione strategica imperiale ma di paura, anzi di terrore. Il comunismo sovietico, dal 1946 al 1956, anno di inizio del suo afflosciamento, ha fatto davvero paura alle oligarchie americane e occidentali. In quei dieci anni l’anticomunismo non è stato solo propaganda ma l’espressione di ansia autentica. Nel contesto del dopoguerra era troppo pericoloso impoverire l’Europa perché si rischiava di consegnarla ai comunisti, mentre oggi la povertà va benissimo. Passata la paura, si sono abbandonate le prudenze e sono tornate l’ebbrezza di impunità e l’irresponsabilità del potere. Sono quindi ricominciate persino le guerre commerciali come le famigerate Guerre dell’Oppio del 1839-1842 e del 1856-1860, scatenate dalla Gran Bretagna contro la Cina.
Per il prossimo novembre gli USA preparano addirittura un embargo petrolifero totale nei confronti dell’Iran. Gli interessi dei Paesi europei saranno investiti in pieno da questo embargo dato che l’Iran è per l’Europa uno dei maggiori fornitori di petrolio e di gas, senza contare tutta la serie di affari connessi.
Il cialtrone Trump e le sue follie c’entrano, ma solo sino ad un certo punto. Negli USA infatti c’è da anni una super-produzione di petrolio ottenuto dalla frantumazione delle rocce di scisto, una produzione troppo costosa, che può risultare competitiva solo se il prezzo del petrolio supera i settanta dollari.
Lo scoppio di un’emergenza-petrolio era quindi scontato, quale che fosse il presidente in carica. Il prezzo del petrolio doveva salire e le esportazioni dei maggiori produttori andavano ostacolate. Dopo l’incontro di Helsinki del luglio scorso tra CialTrump e Putin c’è stato chi ha inneggiato allo scoppio della pace e chi invece ha urlato di indignazione per lo spettacolo di un presidente USA che si prostrava allo zar del Cremlino. In realtà era tutta scena e, a distanza di due mesi, gli USA già annunciano il prossimo bombardamento sulla Siria perché dicono che Assad userà armi chimiche. I governi di Francia e Regno Unito avallano queste scemenze, senza volersi rendere conto che aggredendo la Siria si troveranno davanti ciò che non gli conviene: uno scontro aperto con l’Iran.
Come al solito si potrebbe ricorrere alla banalità secondo cui la guerra avrebbe “cause economiche”. In realtà non si può immaginare business più anti-economico del petrolio di scisto. Sull’onda delle fake news sul prossimo esaurimento del petrolio, le compagnie petrolifere americane hanno ottenuto sussidi e sgravi fiscali dal governo, scaricando sulla collettività i costi del disastro ambientale dell’estrazione e confidando che sempre “san governo” aprisse a colpi di missili uno sbocco commerciale per un prodotto che nessuno vuole. Più che di cause “economiche” si tratta della solita causa di ogni guerra: l’assistenzialismo per ricchi. Uno dei motivi per cui il comunismo - e non solo quello sovietico - si è suicidato sta proprio nell’ostinarsi a vedere il capitalismo come il risultato di una necessità economica, senza riconoscerlo per quel fenomeno criminal-assistenziale che è.
Il lato buffo della incombente tragedia è che i media, con il “Financial Times” in testa, avevano annunciato che la raggiunta autosufficienza energetica degli USA li avrebbe indotti al disinteresse per le rotte petrolifere mediorientali. Oggi invece gli USA preparano una nuova guerra nel Golfo Persico per costringere i Paesi europei a comprare il loro costoso petrolio di scisto.
Matteo Salvini, da ministro degli Interni, fa una politica estera in proprio senza però rendersi conto che in tal modo indebolisce il governo di cui fa parte e, di conseguenza, se stesso. Salvini è riuscito comunque ad incontrare il suo idolo, il primo ministro ungherese Viktor Orban, che costituisce anche uno specchio delle sue ambiguità. Allevato da giovane alla corte del suo attuale nemico, George Soros, Orban sa benissimo che i muri sono solo spettacolo e palliativo e che i capitali sono il vero motore che muove tutto e che andrebbe fermato.
Orban qualche mese fa ha avviato una legislazione anti-ONG che prometteva sfracelli grazie ad un serio controllo sui flussi di capitale dall’estero. Il tutto si è poi annacquato in provvedimenti propagandistici presentati come uno stop a Soros, focalizzato come l’unico problema ed offerto come simbolo agli umori antisemiti che sono tradizionali in Ungheria.
Con un’altra giravolta, Orban si è blindato dal pericolo di essere individuato come antisemita lanciandosi in un appoggio sperticato ad Israele, rifiutandosi persino di incontrare l’Autorità Nazionale Palestinese quando è andato in visita a Gerusalemme. Netanyahu ha ricambiato il favore con gli interessi.
Orban riesce a dissimulare egregiamente le sue contraddizioni grazie al gioco delle parti tra politiscorretto e politicorretto, visto che gli attacchi che gli arrivano sono altrettanto ambigui e tali da rafforzarlo agli occhi della sua opinione pubblica. Anche Salvini ogni qual volta si trova con l’acqua alla gola ha uno stellone politicorretto che gli manda qualche aiutino insperato che lo rilancia agli occhi dei suoi fan: una sortita della Boldrini o meglio ancora, l’inchiesta di qualche Procura.
Uno degli avversari di Salvini, papa Bergoglio, riceve invece dal suo caro politicorretto solo dispiaceri. Bergoglio aveva ritrovato un po’ di smalto grazie all’attacco scomposto mossogli da un nunzio apostolico negli USA. Le ambiguità delle accuse avevano dato modo ai difensori del papa di reiterare il messaggio che narra di un Bergoglio instancabilmente impegnato nella lotta alla piaga della pedofilia nella Chiesa Cattolica. A pochi giorni di distanza gli è arrivata invece una bordata più insidiosa dal Procuratore della Pennsylvania, che ha accusato senza mezzi termini il Vaticano di aver costruito un sistema di coperture dei casi di pedofilia.
Per comprendere la gravità della situazione per Bergoglio, occorre ricostruire il contesto. Quaranta anni fa uno scandalo-pedofilia che colpisse così duramente e lungamente la Chiesa sarebbe stato del tutto impensabile, poiché il cattolicesimo costituiva la punta di diamante dell’Occidente per attaccare i regimi comunisti dell’Est Europa. L’elezione di papa Wojtyla e la sua spedizione in Polonia colpirono al cuore il punto più debole dello schieramento del socialismo reale. A quell’epoca i media non avrebbero mai osato indebolire il fronte tirando in ballo scandali di pedofilia, eppure molti casi di pedofilia di cui tanto si parla oggi datano proprio a quel periodo.
Era prevedibile, scontato, che dopo le vittime, vere e presunte, del comunismo ci sarebbero state le vittime della fine del comunismo, la liquidazione delle finzioni che ormai non servivano più: la “socialdemocrazia europea” e, appunto la Chiesa Cattolica, diventata a tutti gli effetti una preda.
Poco più di venti anni fa, a partire dagli Stati Uniti, è scoppiata la serie degli scandali per pedofilia con l’annesso business. La Diocesi di Boston ha sborsato già ottanta milioni di dollari per risarcimenti a vittime della pedofilia. Chiaramente la gran parte del malloppo è andata non alle vittime. bensì agli studi legali che hanno promosso e finanziato le “class action”.
Si comprende quindi il senso della sortita del Procuratore della Pennsylvania: se il Vaticano sapeva ed era connivente, allora è lo stesso Vaticano che può essere chiamato in giudizio a risarcire le vittime della pedofilia. Se il Massachusetts si è per ora accontentato di ottanta milioni di dollari. la Pennsylvania mira a ben altre cifre. Per il Vaticano potrebbe trattarsi di esborsi miliardari e, in questa prospettiva, è facile profetizzare che innumerevoli ex alunni di scuole cattoliche ricorderanno improvvisamente di aver subito abusi da ecclesiastici.
L’impegno spasmodico della Chiesa nella guerra fredda non ha avuto motivazioni del tutto disinteressate, basti pensare alla questione della restituzione dei patrimoni immobiliari confiscati dai regimi comunisti. Ad esempio, nel 1997 il Vaticano ha firmato a riguardo un accordo col governo ungherese. Prima dell’arrivo dei Russi nel ’45 quasi mezza Ungheria apparteneva alle Curie ed agli ordini religiosi, perciò si può comprendere l’entità delle cifre in ballo.
Secondo stime sicuramente per difetto, il patrimonio immobiliare su scala planetaria della Chiesa Cattolica ammonterebbe al valore di duemila miliardi di dollari. Da troppo tempo questa stima sta rimbalzando sui media di tutto il mondo, il che costituisce un brutto segnale per la Chiesa.
Dai preti quindi c’è parecchio da spremere ed in questi venti anni si è appena cominciato. Non è da escludere che nei prossimi anni la Chiesa Cattolica debba subire un salasso del suo patrimonio immobiliare che farà impallidire quello avviato dai Principi tedeschi all’inizio del XVI secolo grazie al lobbying di Martin Lutero.
Accreditatosi come papa del politicorretto, Bergoglio rischia di venir fatto fuori proprio con l’arma del politicorretto. La Conferenza Episcopale Italiana si è fatta carico dell’accoglienza dei migranti della nave “Diciotti” in modo da prevenire le accuse di incoerenza che già si stavano preparando e coalizzando. Ma il politicorretto è una religione molto più esigente del cattolicesimo e quindi Bergoglio continua a trovarsi in ogni momento sotto un occhiuto esame per ogni gesto e parola fuori posto. Per difendersi il papa dovrebbe riferirsi alle crude cifre del business di cui è oggi bersaglio, ma ciò sarebbe inaccettabile in base alle ipocrisie dell’uditorio che ha sinora coltivato.
|