Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Le notizie degli ultimi giorni indicano che la Turchia si va invischiando nel pantano iracheno per rispondere agli attacchi dei guerriglieri curdi che partono dal nord dell'Iraq. Come al solito, il governo statunitense lancia i suoi preoccupati moniti ai contendenti, come se di tutta la vicenda non sapesse nulla.
Nel momento in cui il governo statunitense ha reso palese il suo progetto di divisione in tre Stati dell'attuale Iraq - uno arabo sciita al sud, uno arabo sunnita al centro ed uno curdo al nord -, era ovvio che ciò avrebbe rafforzato il separatismo curdo anche in Turchia, dove i Curdi sono una minoranza consistente. Altrettanto ovviamente, i soliti commentatori hanno attribuito questa presunta mancanza di preveggenza americana al deficit intellettivo di Bush, che oggi si troverebbe ad assistere impotente all'agonia dello storico alleato turco, il "baluardo della NATO" nel Mediterraneo orientale.
Per un uomo politico americano avere una faccia da deficiente costituisce un viatico per il successo, perché è importante che gli altri credano che lui veramente creda alle puttanate che dice. In realtà la politica destabilizzante di Bush è proprio quella che occorre attendersi da una potenza coloniale commerciale, governata da un esponente delle compagnie commerciali, cioè quelle che oggi sono impropriamente chiamate multinazionali. Persino la perenne malafede di Bush - da lui dissimulata con atteggiamenti da stupido - non è un dato di origine etnica, culturale o ideologica, ma è esattamente ciò che ci si dovrebbe aspettare dal capo di una potenza con quelle caratteristiche geopolitiche.
Una potenza commerciale infatti ha bisogno di altri Stati da cui farsi servire di volta in volta, ma certamente non di Stati dotati di potere contrattuale o in grado di stabilire delle egemonie nella propria area.
Attualmente l'impero sovietico non esiste più, e ha lasciato il posto ad una serie di staterelli, magari estesi territorialmente, ma con una popolazione insufficiente a far assumere loro il ruolo di potenza; la Jugoslavia si è dissolta ed altrettanto sta avvenendo per l'Iraq; perciò l'unica potenza militare e demografica della zona restava la Turchia. Quanto tempo ci sarebbe voluto perché si determinassero le condizioni per il ritorno di una sorta di impero turco?
Una potenza coloniale commerciale non può consentire che si affermino potenze egemoni in ciascuna area. Gli Stati Uniti imposero nel 1918 la nascita della Jugoslavia quando serviva a contrastare l'imperialismo adriatico dell'Italia, mentre negli anni '90 la stessa Jugoslavia è stata liquidata perché impediva la nascita di una serie di Stati-fantoccio del colonialismo statunitense.
Che possibilità possono mai avere Stati come la Macedonia, il Montenegro o il prossimo Kossovo, se non di diventare delle basi del contrabbando gestito dalle multinazionali americane?
Mentre Bush minacciava l'Iran, intanto il suo vero bersaglio era il fedele alleato turco, la cui forza militare stava diventando un oggettivo fattore di egemonia in una area priva di Stati consistenti. Storicamente il colonialismo si è sempre affermato ingannando gli alleati ed a spese degli alleati.
L'Inghilterra, ad esempio, sottrasse Gibilterra alla Spagna nel 1704 non mentre questa era sua nemica, bensì sua alleata contro la Francia.
A proposito di Francia, oggi il Presidente francese Sarkozy è diventato un alleato entusiastico degli Stati Uniti poiché questi hanno associato la Total - la compagnia petrolifera francese - allo sfruttamento del petrolio iracheno. Quindi gli Stati Uniti sanno anche rinunciare ad un po' di soldi al momento, pur di trovarsi di volta in volta dei partner, che sono in realtà la loro futura gallina da spennare.
25 ottobre 2007
Da un po' di tempo gli opinionisti borghesi esibiscono una dolente preoccupazione per i bassi livelli del salario italiano, e si interrogano gravemente sui modi per portarlo ad un livello "europeo". La strada unanimemente proposta dagli opinionisti borghesi è quella della defiscalizzazione del salario: visto che la busta paga è decurtata per oltre la metà da prelievi fiscali e contributivi, ecco prospettata per i lavoratori la nuova frontiera dell'adeguamento salariale.
Non è che questa proposta abbia ottenuto grande popolarità, persino fra i lavoratori più ostili a quella che effettivamente è una rapina fiscale sulla busta paga. Intuitivamente si comprende che aumenti salariali così ottenuti sarebbero molto effimeri: nel giro di due o tre anni l'inflazione e la concertazione governo-sindacati riporterebbero il salario reale ai livelli attuali, perciò la defiscalizzazione della busta paga si risolverebbe nell'ennesimo regalo al padronato. Quando si cerca di conquistare i poveri alla rivolta antifiscale, in realtà è alla diminuzione delle tasse dei ricchi che si sta mirando.
In tutta questa serie di "dottrine economiche" che si sono affacciate negli ultimi anni non si è scorta mai alcuna coerenza, ed un'unica costante è stata riconoscibile, quella di favorire sempre e comunque il ricco a scapito del più povero.
Non è vero che il "neoliberismo", la "deregulation", la "globalizzazione" abbiano diminuito l'intervento statale e aperto i "mercati", poiché quando si è trattato di favorire i ceti dominanti, non ci si è fatto scrupolo di ricorrere alla spesa pubblica, al protezionismo, alle sanzioni. Nonostante la suggestione di questi slogan, non si è potuto fare a meno di notare come negli ultimi decenni, nella sua crescente ansia di depredare i più poveri, anche il capitalismo sia divenuto sempre più straccione, invadendo settori, come la pubblica amministrazione, che sarebbero stati ritenuti trascurabili sino a qualche decennio fa, nell'epoca dell'industrialismo rampante.
Tutto ciò non è un effetto della "ideologia" liberistica. Gli slogan del liberismo sono serviti a coprire e giustificare gli effetti della scelta attuata dalla borghesia mondiale oltre trent'anni fa, cioè il ricorso alla deindustrializzazione allo scopo di demolire la resistenza delle concentrazioni operaie. La deindustrializzazione è stata a sua volta mascherata con gli slogan del "post-industriale" e della "società complessa".
La preoccupazione della borghesia di mantenere il potere è stata alla base di tutte le scelte degli ultimi anni, anche se ciò comportava un regresso economico, e la propaganda ufficiale si è incaricata di dare al tutto un falso alone di progettualità e di orizzonte avveniristico. Sarebbe assurdo, ad esempio, considerare i "neocons" americani come esponenti di un pensiero politico, dato che la loro funzione effettiva è quella di tecnici della propaganda, cioè di agenti pubblicitari.
Con tecniche pubblicitarie, i gruppi dominanti creano delle realtà virtuali che magari hanno pochi mesi o poche settimane di vita, giusto il tempo per raggiungere i loro obiettivi affaristici e colonialistici del momento.
Quindi, se da un lato è molto improbabile che i lavoratori effettivamente abbocchino all'esca della rivolta fiscale, dall'altro lato occorre tenere conto di queste campagne mediatiche che fabbricano ogni giorno l'illusione di eventi storici e di mutamenti epocali. Nel 1980 a Torino la Marcia dei Quarantamila diede l'illusione dell'affermazione di inesistenti "ceti emergenti". In queste settimane i nostri media sono passati con la massima disinvoltura dalla descrizione dell'invasione delle orde della "antipolitica", alla celebrazione dei trionfi veltroniani.
Se nei prossimi giorni i media ci narreranno le vicende di una rivolta antifiscale fra i lavoratori, occorrerà perciò essere molto prudenti e diffidenti verso questa ennesima svolta epocale.
18 ottobre 2007
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