Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Si va chiarendo il quadro della "emergenza" romana iniziata lo scorso anno, con le improbabili imputazioni di mafia per la banda Carminati-Buzzi, e rilanciata quest'anno con l'enfasi pretestuosa imposta dai media alla vicenda del funerale del boss Casamonica. A chiarircelo è stato il governo Renzi, che ha presentato la cacciata del sindaco Ignazio Marino, ed il contestuale commissariamento del Comune di Roma, come un'imposizione alla Capitale del "modello Expo".
La dichiarazione di Renzi ha suscitato perplessità, dato che qui si tratta di un Comune e non di un Expo, ma in questo caso è proprio questa confusione tra questioni diverse a mettere in evidenza che tutto era stato organizzato per mettere le mani sul Comune di Roma in vista del business del Giubileo anticipato. Un business tutto a carico del contribuente, dato che il decantato Expo è costato quattordici miliardi di denaro pubblico a fronte di ottocento milioni di incasso.
La defenestrazione di Marino è stata ovviamente concordata col Vaticano, ma soprattutto con le multinazionali bancarie che oggi lo controllano dopo il tracollo dello IOR. Lo IOR attualmente è gestito dal Promontory Financial Group, una società americana di "consulting", nel cui "official board" sono rappresentate tutte le principali multinazionali del credito.
Dato che non c'erano gli estremi giuridici per commissariare il Comune, e visto che Marino si è rifiutato di rassegnare le dimissioni da sindaco dapprima annunciate, si è dovuto far ricorso all'escamotage delle dimissioni della maggioranza dei consiglieri comunali. Si è assistito quindi all'assurdo spettacolo di un partito che cerca di delegittimare lo stesso uomo che aveva candidato appena qualche anno prima; e l'insurrezione è avvenuta in obbedienza al diktat non del governo, poiché questo non ne aveva la legittimità, ma della persona di Renzi nelle sue vesti di segretario del partito. Per completare il quadro del sedicente "Stato di Diritto", Renzi è rientrato prontamente nel ruolo di Presidente del Consiglio per commissariare il Comune.
Il bello della questione è che persino i sostenitori di Marino non appaiono consapevoli del caos istituzionale suscitato dal colpo di mano di Renzi. Intervistato da "Il Giornale",
Marco di Donato, uno degli amministratori della pagina Facebook pro-Marino, è cascato nella trappola dell'intervistatore che gli ha prospettato assurdi paralleli tra la vicenda della caduta del Buffone di Arcore e quella di Marino. Un presidente del Consiglio deve infatti la sua carica alla nomina del presidente della Repubblica e alla fiducia del Parlamento, mentre il sindaco viene eletto direttamente e la sua carica non dipende affatto dalla fiducia del Consiglio comunale; prova ne sia che sono stati i consiglieri a doversi dimettere. Renzi perciò non può affermare che non c'è stato "complotto", poiché ventisei consiglieri non si dimettono senza una pressione organizzata. Il caos è totale, poiché non è affatto dimostrato che la caduta della Giunta, conseguente alla decadenza del Consiglio comunale, comporti automaticamente anche la decadenza del sindaco.
Non ci sono quindi più istituzioni né leggi, ma un "capo" (in effetti un lobbista per conto di una cosca di affari) che sostituisce le regole scritte con il fumo mediatico delle dichiarazioni infondate. Che un partito di "sinistra" sia riuscito a compiere un tale strame di tutte le procedure istituzionali, è davvero uno storico risultato. Il distacco di gran parte dell'opinione di sinistra dall'attuale Partito Democratico non risolve la questione, poiché è evidente che l'emergenza romana è stata fabbricata utilizzando slogan e luoghi comuni moralistici e pseudo-legalitari che continuano a costituire il patrimonio ideologico della cosiddetta sinistra. Il risultato è che oggi Roma viene scippata dalle mani di un inetto come Marino, alle cui spalle poteva prosperare un cartello clandestino di faccendieri, ma per essere consegnata a banche multinazionali come JP Morgan, Goldman Sachs e Deutsche Bank. Si tratta dello stesso corto circuito ideologico per il quale la sinistra demonizza il denaro contante in nome della lotta all'evasione fiscale, ma poi, tramite il denaro elettronico, vorrebbe affidare il controllo anti-evasione proprio ai maggiori evasori fiscali, cioè le banche.
Gli aspetti smaccatamente degenerativi, anche sul piano antropologico, del fenomeno Renzi non possono far dimenticare quei precedenti che rendono tale fenomeno un esito consequenziale. Dopo la sua esperienza di ministro delle Finanze nel secondo governo Prodi, l'economista Tommaso Padoa Schioppa andò a presiedere la sezione europea del Promontory Financial Group, proprio la società americana che controlla il Vaticano ed ora si è impadronita anche di Roma.
Manco a dirlo, Padoa Schioppa, oltre che un agente della finanza sovranazionale, era anche un ideologo dei presunti effetti moralmente rigenerativi delle "riforme strutturali", cioè la deflazione, la quale, secondo lui, avrebbe rieducato le masse alla "durezza del vivere". Un suo articolo a riguardo, sul "Corriere della Sera" del 26 agosto 2003, ha riscosso negli ultimi anni un notevole "successo" sulla rete.
La deflazione è tanto cara alle banche poiché favorisce i creditori e danneggia i debitori; ma se Padoa Schioppa poteva permettersi di decantare le virtù morali della stessa deflazione, era anche perché poteva giocare sulle parole di colui che aveva avviato questo corto circuito ideologico, cioè Enrico Berlinguer. Nel 1977 il segretario del PCI aveva infatti celebrato la scelta etica della "austerità", secondo lui la via maestra per uscire dalla recessione. Un bel gioco di parole anche questo.
La tendenza degli esseri umani a sopravvalutare la propria intelligenza è una costante storica (basti pensare al ridicolo nome "scientifico" attribuito alla specie: "Homo Sapiens Sapiens"), ma esistono anche meccanismi di istupidimento collettivo che aggravano ulteriormente questo quadro. Il più recente di questi meccanismi è la categoria di "Occidente", un sistema di pensiero che va persino oltre la falsa coscienza, e che consiste nel filtrare tutta l'esperienza con una serie di fiabe il cui unico scopo è la riconferma acritica della propria superiorità morale sugli avversari.
Un articolo di uno dei campioni dell'occidentalismo, il francese Bernard-Henry Lévy, è stato rilanciato alla metà di ottobre dal "Corriere della Sera", che lo ha spacciato come "analisi" dell'intervento russo in Siria. Tutta la prima parte dell'articolo è dedicata alla riaffermazione dei consueti luoghi comuni propagandistici: i meschini interessi di potenza che avrebbero motivato l'intervento russo, e la sbrigativa brutalità dello stesso intervento, che sarebbe tanto diverso nei metodi rispetto alle cautele umanitarie che caratterizzerebbero gli interventi occidentali. Se ne potrebbe arguire che anche le continue stragi di civili che avvengono attualmente in Afghanistan siano ancora da attribuire ai Russi, pur ritiratisi quasi trenta anni fa.
Ma queste banalità propagandistiche servono solo a preparare il vero piatto forte dell'articolo, che consiste nel paventare la formazione in Europa di uno strisciante partito filo-Putin. Qui l'esca che viene lanciata è più insidiosa, e rischia di catturare anche coloro che non si sono bevuti le consuete litanie sulla superiorità occidentale. L'esca consiste nella personalizzazione della questione russa, incentrandola sulla figura di Putin, il quale, alternativamente, può svolgere nell'immaginario collettivo il ruolo del malvagio dittatore di turno, oppure quello del messia che possa salvarci dalla crescente irresponsabilità dell'imperialismo USA.
La putinologia allontana però dalla vera questione, che è quella del rapporto che il sistema imperialistico euro-atlantico ha stabilito con la Russia in questi ultimi trenta anni. Una Russia che non poteva essere espugnata con le armi, è stata espugnata dall'Occidente con gli affari, sia quelli del petrolio che quelli finanziari. Il crollo del prezzo del petrolio ha però indebolito seriamente questa prospettiva, poiché la multinazionale russa Gazprom non ha più le risorse finanziarie per tenere in stato di sudditanza l'altro potere che conta in Russia, le forze armate, tutt'altro che disposte a rinunciare alla base navale di Tartus in Siria; così come non sono state disposte a perdere le basi della Crimea.
Se, come molti sospettano, la caduta del prezzo del petrolio è stata orchestrata da USA ed Arabia Saudita per mettere in difficoltà la Russia, si può senz'altro concludere che l'effetto della manovra è stato controproducente, poichè ha rafforzato in Russia le opzioni militari. Circola peraltro anche l'ipotesi che la Siria sia un'esca lanciata dagli USA e dall'Arabia Saudita per irretire la Russia in un'altra trappola, come quella dell'Afghanistan dei primi anni '80. Ma la Siria non è estesa e montagnosa come l'Afghanistan, e le milizie jihadiste adesso sono vulnerabili anche agli attacchi missilistici lanciati dalle navi russe nel Mediterraneo. Non va trascurato neanche il fatto che sia tramontata quella concorrenza ideologica nei confronti del comunismo ateo che era in grado di esprimere il jihadismo degli anni '80, il quale riusciva a spacciarsi come bandiera dei poveri del sud del mondo. Oggi negli stessi Paesi islamici invece tutti sanno che il jihadismo esiste solo in virtù dei finanziamenti delle petromonarchie e dell'addestramento di CIA e Blackwater, perciò certe fesserie possono trovare credito solo nell'Occidente infantilizzato e pronto a bersi tutte le fiabe sul "fanatismo".
Se è vero che l'invasione dell'Afghanistan mise in grave crisi l'Unione Sovietica e ne appannò la mitologia di superpotenza militare, è anche vero che fu la sirena occidentale degli affari a dare la spinta decisiva. Ma la multinazionale finanziaria che nel 1989 aveva "comprato" il Muro di Berlino, Deutsche Bank, è ora a sua volta in seri guai, dato che deve affrontare una voragine da titoli derivati di settantadue trilioni di dollari. Una cifra che permette a Deutsche Bank di ricattare il proprio governo e l'intero Occidente con la minaccia di un disastro finanziario, ma che le impedisce la disinvoltura esibita negli anni '80 nei confronti della Russia di Gorbaciov, e negli anni '90 con la Russia di Eltsin. Ora Deutsche Bank non è più il feticcio di una volta, e viene anche umiliata dalle agenzie di rating, che non si esprimono per amore di corretta valutazione, ma per assecondare l'opinione ormai diffusa, che ha ribattezzato la multinazionale tedesca come "il buco con la banca intorno".
La politica occidentale vive sotto il ricatto delle sue lobby finanziarie, e non è neppure in grado di porsi il problema di disciplinarle. Avviene così che Deutsche Bank possa continuare indisturbata a pubblicizzare ai suoi clienti - che essa definisce "più evoluti" - gli stessi titoli tossici che l'hanno condotta al disastro finanziario. Se questo è ciò che propongono ai clienti più evoluti, figuriamoci cosa sono capaci di vendere ai meno evoluti.
Se l'imperialismo occidentale non è più in grado di comunicare con la Russia attraverso il linguaggio del denaro, deve aspettarsi altre sorprese, con o senza Putin.
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