Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Dopo aver guidato l’assalto alla baionetta contro il governo Prodi, il giornalista Michele Santoro ha trasformato la sua trasmissione televisiva in un’attrezzata trincea a favore delle tesi propagandistiche del governo Berlusconi, con il supporto di un contraddittorio addomesticato, grazie al quale Brunetta e Gelmini possono rifulgere di una luce di moralizzazione ed efficientismo. In un’intera trasmissione sulla “riforma” dell’Università si è potuto puntare tranquillamente i riflettori sugli “sprechi”, senza un minimo riferimento all’assalto affaristico attuato da Tremonti con la legge 133 nei confronti dei patrimoni immobiliari delle stesse Università e dei beni demaniali ad esse in uso.
È lo stesso Santoro che negli anni passati, servendosi anche di “documenti” audiovisivi sfacciatamente manipolati, ha accreditato il pericolo del terrorismo islamico, al punto che oggi sorge il dubbio che egli non sia soltanto un imbecille manovrato, ma un vero infiltrato nell’ambito della cosiddetta opinione pubblica di sinistra.
D’altra parte la questione della sinistra che ha la sua ragion d’essere nel fare da sponda alla propaganda di destra, non può essere risolta esclusivamente con l’ipotesi dell’infiltrazione, dato che si ha la sensazione che ormai la destra sia riuscita a costruirsi, con un secolo di guerra psicologica, degli avversari fatti su misura per le proprie esigenze di immagine.
Un governo coloniale e cleptocratico come quello attuale, non solo ha potuto impugnare la bandiera della moralizzazione, ma anche quella del rinnovato patriottismo, tramite la decisione del ministro della Difesa Ignazio La Russa di ripristinare la festività del 4 novembre, data della vittoria nella prima guerra mondiale.
Nel salottino di Bruno Vespa, il direttore di “Liberazione”, Sansonetti è andato a recitare la parte del disfattista, facendo da comoda spalla per il fervore pseudo-patriottico di La Russa, al quale non si è pensato di chiedere cosa ci sia di patriottico nel cedere agli Stati Uniti interi pezzi del territorio nazionale, come sta avvenendo per Giugliano in Campania, che sta diventando sede dell’ennesima base NATO in Italia. Neppure si è chiesto conto al ministro del comportamento degli occupanti statunitensi, i quali attuano una guerra psicologica contro la popolazione campana, diffondendo persino notizie allarmistiche sulle condizioni igieniche dell’acqua del luogo; luogo da cui peraltro non manifestano la minima intenzione di sfollare.
Le cose non sono andate meglio neppure con il ricorso a temi storici, allorché lo storico Angelo del Boca, sempre su “Liberazione”, ha contrapposto al mito della vittoria di Vittorio Veneto, rilanciato da La Russa, la presunta realtà della disfatta delle truppe italiane a Caporetto, che nell’ottobre del 1917 subirono uno sfondamento da parte di forze congiunte austro- ungariche e tedesche.
È possibile che la battaglia di Vittorio Veneto del novembre 1918 sia stata montata dalla propaganda, per costruire il mito di una vittoria militare laddove ci sia stata solo una ritirata dell’esercito austro-ungarico in disfacimento, a causa dell’esplosione dei conflitti nazionali interni. Ma questa possibilità non accredita automaticamente il mito, molto più pervicace - tanto da diventare proverbiale -, di Caporetto.
Tre anni fa anche lo scrittore Alessandro Baricco ha rilanciato l’idea di una Caporetto come rivoluzione mancata, una grande ribellione sociale e di massa contro la guerra. È il mito del disfattismo rivoluzionario che ha suggestionato molti antimilitaristi. D’altra parte non ci si può accontentare dei miti, ma occorre verificarli storicamente, e l’ipotesi di Caporetto come ribellione dei soldati di truppa non trova nessun riscontro: non un giornale o un volantino che incitino all’insurrezione, non una testimonianza diretta a riguardo.
Neppure il numero esorbitante dei fucilati e incriminati per diserzione costituisce in sé un dato significativo, dato che la prassi degli ufficiali e dei carabinieri era “Nel dubbio, fucilare.”, così che finivano davanti ai plotoni di esecuzione dei semplici sbandati. Alla fine della guerra, lo stesso comandante in capo, il generale Armando Diaz, sollecitò un’amnistia per i disertori, per liberare i tribunali militari da migliaia di processi per accuse ridicole, come ritardi nel rientro dalle licenze; all’atto della promulgazione dell’amnistia, Diaz si rimangiò poi quella sua posizione, ma ormai era stato cooptato dai fascisti che gli avevano promesso il titolo nobiliare di duca, e infatti anche Mussolini si era dimenticato di essere stato anche lui fra quelli che avevano sollecitato l’amnistia.
Gli indizi concreti sulla nascita del mito di Caporetto come disfatta e come ribellione, portano invece in tutt’altra direzione. Il primo a enfatizzare pretestuosamente l’episodio di Caporetto, trasformandolo da semplice disastro militare, per quanto grave, in un simbolo di qualcos’altro, fu il pittore e poeta Ardengo Soffici, con il libro “La Ritirata del Friuli” del 1919. Nel 1921 fu però il solito Curzio Malaparte, con il libro “La Rivolta dei Santi Maledetti” a proporre per primo l’ipotesi di Caporetto come rivoluzione mancata.
Il libro di Malaparte era molto abile, faceva anche riferimento alle responsabilità degli alti gradi militari nel disastro - senza però addentrasi nelle precise e dirette colpe del suo confratello massone, il generale Pietro Badoglio, che avrebbe proseguito la sua irresistibile ascesa - e, sebbene fosse basato solo su illazioni, ebbe un grande effetto sulla sinistra socialista e comunista, che iniziò a mitizzare le figure dei disertori, arrivando a candidarne alcuni alle elezioni.
Ma il libro più famoso su Caporetto è certamente “Addio alle Armi”, di Ernest Hemingway, un romanzo pseudo-autobiografico del 1929, da cui fu tratto anche un film con Gary Cooper nel 1932. Sennonché si è potuto accertare dalle date del soggiorno di Hemingway in Italia, che questi non ebbe niente a che fare con Caporetto, e che le sue fonti a riguardo erano, manco a dirlo, Soffici e Malaparte.
Può significare qualcosa che Soffici e Malaparte siano stati entrambi fascisti e massoni, interessati a sfruttare Caporetto come pretesto per un regolamento di conti con la sinistra, indicata come responsabile della disfatta. Se oggi Caporetto è in tutto il mondo più famosa del Piave o di Vittorio Veneto, lo si deve alla propaganda fascista, poiché a suo tempo il disastro di Caporetto non fu considerato più rilevante di analoghi disastri militari su altri fronti; tanto che il comandante supremo dell’esercito francese, il generale Foch, venne in Italia dopo Caporetto non per offrire proprie truppe al fronte italiano, ma per chiedere altre truppe italiane per il fronte francese, cosa che ottenne.
La qualità morale dei due fascisti autori del mito di Caporetto può essere anch’essa indicativa. Malaparte fu agente dell’OVRA, la polizia segreta fascista, e, secondo la diretta testimonianza dell’anarchico Camillo Berneri, partecipò alla caccia agli antifascisti rifugiati a Parigi dal 1924; Malaparte fu coinvolto indirettamente anche nell’omicidio di Matteotti, e durante la seconda guerra mondiale fece parte dell’OSS statunitense (quello che sarebbe poi diventato la CIA).
Se Malaparte fu sempre coinvolto nelle operazioni più sordide e ambigue di spionaggio e guerra psicologica, anche Ardengo Soffici non ha brillato per qualità morali, ed è passato alla storia della letteratura come persecutore del poeta Dino Campana, di cui fece sparire i manoscritti originali delle sue poesie, per ostacolarne la pubblicazione. Alla morte di Soffici, i manoscritti scomparsi furono ritrovati proprio in casa sua.
Gli indizi storici conducono quindi da un’altra parte, e cioè alla concreta prospettiva che il disfattismo rivoluzionario costituisca un mito funzionale alla guerra psicologica ed alla intossicazione ed eliminazione delle organizzazioni operaie.
Chi fosse poi realmente il disfattista, lo dimostrò Mussolini nel 1922, quando, come primo provvedimento del suo governo, abolì il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, distruggendo così le basi del sistema previdenziale a favore dei soldati, un sistema assicurativo che era stato istituito dal governo Orlando proprio per risollevare il morale delle truppe dopo Caporetto.
In effetti i veri episodi di antimilitarismo non si sono mai espressi con il disfattismo, ma con la rivolta aperta, come avvenne per Augusto Masetti, che, arruolato nel 1911 per la guerra coloniale di Libia, si ribellò sparando al suo colonnello. Masetti divenne la figura-simbolo della Settimana Rossa del 1914, e per il resto della vita, passata in gran parte in carcere, continuò la sua attività antimilitarista, finanziandola con i suoi modesti guadagni di operaio edile. Un mito fittizio, come la rivoluzione mancata di Caporetto, ha finito perciò per oscurare la memoria di una figura autentica di ribellione al militarismo come quella del grande Augusto Masetti.
La mitologia militaristica e quella disfattistica, hanno perciò origini comuni e, probabilmente, le stesse finalità di guerra civile antioperaia. È tipico dei fascisti interpretare tutte le parti in commedia, brandire la bandiera della patria e, al tempo stesso, lavorare per il colonialismo straniero denigrando, calunniando e demoralizzando il proprio popolo.
Non c’è nulla di strano quindi nel fatto che La Russa, mentre celebra il 4 novembre, dispieghi i soldati contro la popolazione civile, per coprire l’occupazione del territorio italiano da parte dei suoi padroni statunitensi.
27 novembre 2008
Sulla sentenza di Genova, che ha mandato assolti i vertici della polizia per le torture alla scuola Diaz, Gad Lerner ha commentato sul suo blog domandandosi se non sarebbe stato meglio negare l’evidenza, e presentare l’operato dei poliziotti come una legittima reazione al terrorismo; dato che, in tal modo, si sarebbe almeno evitato di scaricare “all’italiana” tutta la responsabilità sui funzionari subalterni.
In realtà, la sentenza di Genova non è stata all’italiana, ma all’americana, dato che ricalca in pieno lo schema già attuato nei processi per le torture nel carcere di Abu Ghraib: anche in quel caso tutta la colpa è stata circoscritta a dei subalterni, senza coinvolgere le responsabilità degli alti gradi militari e dell’amministrazione Bush, la quale, nello stesso periodo delle sentenze, si adoperava sfacciatamente, e con successo, per rendere ufficiale e legale la pratica della tortura negli USA.
Prima delle sentenze su Abu Ghraib, allora sì, si sarebbe adottata la vera soluzione all’italiana, cioè la negazione dell’evidenza sino in fondo, dato che, in questa circostanza, l’evidenza la si è negata, eccome, ma soltanto per ciò che riguardava le responsabilità politiche e dei vertici della polizia.
Anche se i fatti di Genova sono avvenuti qualche anno prima di quelli di Abu Ghraib, le sentenze sono giunte dopo, e quindi si sono adeguate a questo nuovo modello politico e comunicativo; un modello che prevede sia la spettacolarizzazione mediatica delle torture, che diventano un modo per attrarre consenso, sia l’abbandonare la manovalanza al suo destino.
La novità non consiste perciò nelle torture e nei pestaggi a freddo - che ci sono sempre stati -, ma nel consentire la circolazione di immagini ed informazioni a riguardo, cosa che comporta una punizione legale, per quanto mite e meramente simbolica, degli esecutori materiali.
Non è affatto scontato che questo nuovo modello politico/comunicativo sia stato tracciato lucidamente, ma può anche derivare dalle caratteristiche tipiche delle oligarchie cleptocratiche, caratteristiche che implicano una esasperazione esibizionistica della mentalità gerarchica, un vero e proprio culto della disuguaglianza.
In altre parole, se da un lato si sancisce e si santifica l’impunità propria e quella dei propri pari, dall’altro lato non si è disposti a muovere un dito per difendere un proprio subalterno. Ciò che nella vicenda di Genova è completamente mancato, addirittura saltato, è infatti la vecchia tradizione dello spirito di corpo della polizia. I poliziotti potevano ammazzarsi a vicenda - e lo facevano, e ancora lo fanno, molto spesso -, ma una volta non si sarebbero mai mollati a vicenda, ed un superiore si sarebbe comunque fatto in quattro per tutelare un proprio sottoposto.
Le dichiarazioni del senatore Gasparri - esponente dell’ex AN, tradizionale partito dei poliziotti -, dopo la sentenza di Genova hanno quindi assunto un tono involontariamente patetico, poiché la polizia non solo non è “uscita a testa alta” da tutta la vicenda, ma ha offerto lo spettacolo penoso di una istituzione allo sbando. Lo stesso Gasparri poi non ha speso una parola a favore dei poliziotti subalterni condannati, per lasciarsi andare a dichiarazioni tronfie e trionfali sulla caduta della “teoria del complotto”, cioè sulla assoluzione dei vertici della polizia, dimostrando così che quella era la sua unica e vera preoccupazione.
Tutto ciò ricorda lo “stile Rumsfeld”, che in Iraq lasciava l’esercito senza equipaggiamento e senza servizi logistici, per versare tutti i quattrini nelle casse di ditte di mercenari privati come la Blackwater; oppure che nel 2006 non era disposto ad inviare neppure un aereo per mettere in salvo i cittadini americani rimasti nel Libano bombardato da Israele, ma arrivava ad offrirgli di prestargli il denaro per fuggire solo in cambio di interessi da strozzo.
Si tratta di un potere criminale, il cui personale è composto da criminali comuni, che si regge e si legittima esclusivamente sulla criminalizzazione dei suoi sottoposti. Non sarebbe stato possibile l’avvento di un personaggio abietto come Brunetta al Ministero della Funzione Pubblica, senza la criminalizzazione preventiva degli statali, attraverso anni di campagna mediatica guidata dagli articoli di Pietro Ichino. Il risultato è che oggi abbiamo uno Stato che si regge sulla criminalizzazione degli statali, e che progetta di derubare i contribuenti attraverso l’appalto delle sue funzioni a ditte private.
20 novembre 2008
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