Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Dopo anni in cui i media ci hanno dato la croce addosso perché l’Italia non cresceva, vi è stata una breve pausa autocelebrativa in cui ci si è fatto sapere che si era ricominciato a crescere. Ma la celebrazione è durata poco, cioè finché si è potuto attribuire il merito della crescita alle “riforme strutturali”. Adesso che risulta chiaro che c’è stato un aggancio italiano alla crescita europea favorita dalle iniezioni di liquidità della BCE, le trombe mediatiche del “colpanostrismo” hanno ripreso a suonare per lamentare che in Europa la crescita è “robusta”, ma che l’Italia cresce “meno” degli altri partner europei. Ecco dunque una nuova colpa da espiare e nuove palingenesi da indicare, con annessi i soliti salvataggi” e relativi sacrifici.
Nell’ottobre scorso giungeva trionfalmente la notizia che il PIL della Germania, su base trimestrale, segnava una crescita del 2,8%. Tale aumento portava le stime su base annuale nientemeno che al 2,2%. Roba da scialare. Se si va però a vedere meglio, si tratterebbe di un mezzo punto percentuale rispetto alle stime di crescita attribuite all’Italia. È vero che siamo il fanalino di coda, ma il distacco non è poi così marcato.
Solerti economisti da talk-show lamentano che l’Italia è in ritardo perché spreca risorse in sussidi a pioggia. A parte il fatto che un capitalismo senza sussidi statali si è visto solo in qualche fiaba liberista e mai nella realtà, le statistiche ufficiali europee indicano che, nel campo dei sussidi a pioggia (al netto degli aiuti alle banche), tra i Paesi sviluppati il campione è ancora una volta la Germania, che spende a riguardo quasi quattro volte in più di quanto spende l’Italia. La Germania dunque elargisce tutti questi aiuti alle imprese per ottenere solo uno 0,5% di crescita in più rispetto all’Italia. C’è qualcosa che non va.
Sarebbe tutto più semplice se si ammettesse che, nonostante le iniezioni di liquidità, la stagnazione economica continua. Del resto i dati recenti sull’inflazione europea confermano che non vi è alcuna ripresa della domanda, semmai un calo.
Ancora più semplice sarebbe ammettere che questa situazione di stagnazione persistente non dispiace a tutti, anzi, risulta piuttosto gratificante per le Borse. Quest’anno infatti Wall Street e Francoforte hanno segnato nuovi massimi storici. La liquidità con cui la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea hanno inondato i “Mercati” non va nella produzione ma in bolle speculative. Quindi la stagnazione economica è funzionale alla finanziarizzazione.
Tutto è cominciato alla fine degli anni ’70, quando l’establishment è riuscito a bloccare la crescita dei salari. La caduta della domanda di beni rendeva sempre meno remunerativi gli investimenti nella produzione, perciò i capitali si spostavano verso la speculazione finanziaria. In più avveniva che, per poter accedere ai consumi nonostante il salario insufficiente, i lavoratori erano costretti ad indebitarsi, ad integrare i salari con i prestiti. Era un’altra porta spalancata per la finanza: la massiccia finanziarizzazione dei consumi. Dai bassi salari deriva la stagnazione, dalla stagnazione deriva il potere della finanza.
Sarebbe più semplice ammettere tutto questo, ma non lo si farà, in base alla regola sociale secondo cui ogni rendita di posizione viene strenuamente mantenuta finché non sia definitivamente consunta. È vero che qua e là sulla stampa di establishment comincia ad uscire qualche voce che riconosce il fatto che i bassi salari non sono solo la conseguenza ma soprattutto la causa della bassa produttività, ed un intervento in tal senso è giunto persino dal settimanale londinese “The Economist”. Ma sono rondini che non fanno primavera.
Finché sarà possibile si continuerà a sostenere lo story telling mediatico della ripresa e dell’uscita dalla “crisi” e, per supportare ideologicamente la finanziarizzazione, si continuerà a ricorrere al discorso morale: “austerità”, “risanamento” delle finanze,
“sacrifici”. La mistificazione continuerà a reggersi sulla colpevolizzazione dei popoli, sulla criminalizzazione mediatica del costo del lavoro, delle pensioni e del welfare.
L’ondata mediatica di fake news sulle fake news ha trovato finalmente un punto fermo. Si è infatti individuata la fonte dell’allarme; si tratta inoltre di una fonte insospettabile e al di sopra delle parti: il Dipartimento di Stato USA. Prima ancora che il quotidiano “New York Times” si facesse latore dell’allarme, al nostro governo era giunta un’informativa a riguardo proprio dal Dipartimento di Stato americano. Con ammirevole senso della legalità ci viene anche spiegato che la fonte (o la fonte della fonte?) non può addentrarsi nei dettagli delle prove per non violare la legge.
I contenuti dell’informativa risultano abbastanza sconcertanti, tanto da far supporre che al Dipartimento di Stato USA si rubino lo stipendio. Il nostro governo viene infatti “avvisato” del pericolo che dalla Russia provengano fake news tendenti a favorire le formazioni politiche più orientate ad un avvicinamento con la stessa Russia, cioè la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle. L’irrealismo dell’informativa appare abbastanza evidente, dato che in Italia non esiste una classe politica in grado di mettere minimamente in discussione la collocazione “atlantica e occidentale” del Paese; e non c’era neppure bisogno dei pellegrinaggi di Di Maio a Washington e di Salvini in Israele per accorgersene. Che poi la propaganda russa cerchi di tirare l’acqua al proprio mulino, è prevedibile e fisiologico, ma la Russia rimane un Paese povero, con un PIL addirittura inferiore a quello dell’Italia, perciò non può permettersi di “investire” più di tanto per destabilizzare la politica di altri Stati.
La pseudo-informativa del Dipartimento di Stato USA non va però considerata un semplice controsenso, poiché deve essere collocata nel vero contesto. Da qualche anno la Russia ha avviato una legislazione contro le ingerenze esterne, ponendo limiti alle ONG, al movimento di personaggi indesiderabili ed al finanziamento dall’estero di organi di informazione. Si tratta di una legislazione difensiva a costo zero, adeguata ad uno Stato con scarse risorse; una legislazione che sta diventando un modello anche per altri Paesi, persino di collocazione “atlantica”, tra cui l’Ungheria e, pare, anche la Romania.
Innescare una psicosi mediatica sulle fake news e sulle “ingerenze” russe svolge quindi una precisa funzione, cioè creare un “rumore di fondo” che impedisca alla notizia vera di pervenire alle opinioni pubbliche. La notizia vera è appunto il fatto che dalle ONG e dalle altre ingerenze ci si può difendere senza eccessivo sforzo.
Non ci facciamo mancare nulla perciò, dopo il fascistaccio brutalone di Ostia, abbiamo avuto anche i naziskin “umanitari” di Como, che hanno fatto un blitz in una associazione di accoglienza agli immigrati, non per picchiare, ma per leggere un comunicato. È scontato che sorga il sospetto che si tratti di episodi prefabbricati ad uso dei media, ma alcune considerazioni possono valere in ogni caso. Il volontariato dell’accoglienza è infatti l’ultimissimo, inconsapevole, anello di una catena che inizia altrove, perciò appuntare la polemica contro di esso risulta fuorviante. A meno che lo scopo non fosse proprio quello di fuorviare.
Il Dipartimento di Stato USA infatti non è soltanto la fonte delle fake news sulle fake news, ma anche la fonte principale dei finanziamenti alle ONG che si “occupano” di migrazione, ovvero la incentivano e la organizzano. Trasparente com’è, il governo USA ce lo fa sapere sul suo stesso sito.
Si osserva spesso che la migrazione costituisce un esercito industriale di riserva che serve a contenere il costo del lavoro, il che è vero ma riduttivo. Da parte delle destre si parla invece di vera e propria “sostituzione di popolazione”, cosa che può essere in parte vera, ma che risulta sproporzionata se si considerano i numeri effettivamente in ballo; tanto più che solo una parte dei migranti mira a stabilirsi definitivamente, anzi, mantiene un legame stabile con la madre patria attraverso le rimesse.
Ciò che risulta certo è infatti che la migrazione di massa rappresenta un enorme laboratorio di “inclusione finanziaria” dei poveri del mondo. Ciò avviene con il microcredito ai migranti, ma anche con le rimesse degli stessi migranti, alle quali la Banca Mondiale ha dedicato due anni fa un’apposita conferenza internazionale. Può apparire una sorpresa per un’opinione pubblica addestrata a temere gli spauracchi del debito pubblico e della spesa pensionistica, ma le umili rimesse dei migranti sono addirittura oggetto di operazioni di finanza derivata: le “securitization”, cioè le cartolarizzazioni.
Si dice spesso che gli Stati Uniti sono un impero, ma da un impero ci si aspetterebbe che destabilizzasse gli avversari non gli alleati, come invece sta avvenendo con l’ondata migratoria che coinvolge l’Europa e che sottopone le sue opinioni pubbliche ad uno stress foriero di conseguenze incontrollabili. In realtà più che di impero si tratta di imperialismo, cioè di un intreccio di militarismo e finanza. Al Dipartimento di Stato USA quindi, più che gli strateghi imperiali, contano i lobbisti delle armi e della finanziarizzazione.
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