Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Nelle cosiddette società civili, moderne o post-moderne, lo spargimento di sangue sembra proprio possedere gli stessi effetti di consacrazione che ha nelle società primitive e tribali. L'attentatino di domenica scorsa, è quindi servito a conferire un po' di legittimità emergenziale ad un "governissimo" che presentava il bassissimo profilo di un governicchio, al quale la spruzzata di "politically correct" della massiccia presenza femminile - fra cui una donna di origine congolese -, non era riuscita ad attribuire alcuna credibilità in più.
Particolare sconcerto ha suscitato la nomina della guerrafondaia Emma Bonino a ministro degli Esteri; una scelta all'insegna del fanatismo americo-sionista, che si configura come un'esplicita rinuncia ad una propria politica estera, che viene ufficialmente delegata alla NATO. Dagli anni '90 la Bonino svolge questo ruolo di portavoce della NATO, ed ora potrà scorazzare per le televisioni addirittura in veste di ministro degli Esteri. Evidentemente c'è in vista qualche altra guerra della NATO: Siria, Iran, Sudan, Zimbabwe, Corea del Nord. Si tratta solo di scegliere. C'è da essere certi che, quando si tratterà di votare per finanziare le missioni militari, la già pletorica maggioranza attuale si dilaterà ulteriormente.
L'impressione è che l'attuale soluzione governativa sia stata preparata nello stesso periodo in cui si fingeva di inviare il povero Bersani a compiere le sue "esplorazioni". Prospettare la candidatura di Emma Bonino alla Presidenza della Repubblica, ha costituito un espediente propagandistico per ripescare la sua immagine dal dimenticatoio, riverniciandola anche di quell'alone di prestigio che le mancava. Si è trattato di una manovra propagandistica analoga a quella di paventare la nomina di Giuliano Amato a Presidente del Consiglio, in modo da attribuire immediatamente ad Enrico Letta l'etichetta consolatoria del "meno peggio" di fronte alla pubblica opinione.
Ma la totale rinuncia dell'attuale governo a fare politica in proprio, è stata ufficializzata anche dalla nomina di Fabrizio Saccomanni al ministero dell'Economia. Che anche un governo che si pretende "politico", abbia accettato di affidare ancora una volta la guida dell'economia ad un sedicente "tecnico", costituisce un'automatica smentita di tale pretesa. Inoltre, il fatto che Saccomanni abbia ricevuto la sua formazione nel Fondo Monetario Internazionale, autorizza allo scetticismo circa la sua autonomia da questo organismo sovranazionale. Non che lo stesso Saccomanni faccia molto per celare questo suo legame sentimentale col FMI, poiché nel 2009 elaborò un documento di analisi del sistema monetario internazionale, in cui affermava che la causa della crisi finanziaria consisteva nel non aver concesso abbastanza potere al FMI. L'ideale di Saccomanni era quindi rappresentato da un governo mondiale dell'economia sempre più affidato al FMI.
Per consentire queste repentine conquiste di maggior potere, occorre una grave emergenza in grado di giustificare tutto. Lo scoppio della crisi finanziaria greca nel 2010 - l'anno successivo al profetico documento di Saccomanni -, avrebbe in effetti consentito una crescente ingerenza del FMI in Europa; ed all'epoca anche illustri commentatori dell'area "progressista" celebrarono questa "rivincita" del FMI e del suo principale azionista, cioè gli Stati Uniti.
Chiaramente la storiella propinata da Federico Rampini, secondo cui un FMI emarginato ed incompreso sarebbe ritornato alla ribalta per la sua capacità di affrontare le crisi, è la solita propaganda vittimistica dei potenti, dato che il FMI ha tratto dalla crisi greca solo pretesti per ampliare il suo storico strapotere. Qualche malpensante potrebbe persino sospettare che Saccomanni sia stato messo lì per preparare anche in Italia qualche emergenza finanziaria che consenta al FMI di farla ancora di più da padrone, ma si tratterebbe di sospetti meschini e ingenerosi. Perché mai un uomo del FMI dovrebbe comportarsi da uomo del FMI?
Nel campo della cosiddetta opposizione, c'è da registrare il fatto che il M5S, una volta perso il centro della scena, sta diventando un bersaglio fisso per ogni genere di provocazione, dalle accuse pretestuose di favorire la violenza, al gioco di pretese rivelazioni fondato su banalità. Si sta quindi prospettando una riedizione, un po' più colorita, della "opposizione"-punching ball alla Bertinotti.
Il M5S ha perso la sua occasione quando non è andato a scoprire il bluff che Napolitano aveva allestito con il suo pseudo-incarico a Bersani. A Grillo sarebbe bastato accettare di discutere il programma di un eventuale governo con Bersani, e non appena si fosse parlato di TAV o MUOS, sia Napolitano che i doppiogiochisti interni al PD sarebbero stati costretti a smascherarsi pur di affossare la prospettiva di un governo di coalizione col M5S.
Invece Grillo ha scelto (o è stato costretto a scegliere) di addossarsi per intero la responsabilità del fallimento di Bersani davanti alla pubblica opinione, ed ora si ritrova a non poter più smentire l'etichetta mediatica di quello che protesta, ma non sa proporre nulla. Gli atteggiamenti da purista e bigotto possono benissimo servire a coprire un sostanziale conformismo nei confronti dell'ideologia dominante. Ora, anche grazie a Grillo, persino uno come Enrico Letta potrà, per un po', spacciarsi come la strada obbligata, l'unica salvezza contro il disastro dell'ingovernabilità.
Anche le dichiarazioni del M5S durante il voto di fiducia al governo non hanno tentato nulla per scalfire questa aureola dello stato di necessità; in particolare, tutta la polemica si è rivolta su questioni strettamente interne, senza mettere in evidenza il fatto che il governo Letta manifesta i segni di un'ulteriore esasperazione della dipendenza dagli organismi sovranazionali. Ma, d'altra parte, prendersela con i "politici" è molto meno pericoloso che mettere al centro dell'attenzione le magagne della NATO e del FMI.
La notizia, alquanto marginalizzata, dell'attentato all'ambasciatore francese in Libia, ha riproposto un po' all'attenzione la situazione di una guerra ancora in corso e dai contorni sempre più oscuri. Ovviamente l'autobomba è stata attribuita alla solita sigla di comodo, Al Qaeda. Anche per l'attentato di Boston, l'FBI non ha esitato ad incastrare due fratelli ceceni - quindi musulmani -, pur di suggerire un fantomatico nesso con la mitica Al Qaeda. Nel caso della Libia, invece il fantasma di Al Qaeda si concretizza chiaramente in ben altri finanziatori e mandanti, dai contorni molto più precisi.
Infatti la Francia, lanciatasi in una nuova avventura militare in un Paese vicinissimo alla Libia, il Mali, si trova oggi praticamente in guerra con quello che era stato un suo alleato nella conquista della stessa Libia - e lo è ancora nell'aggressione alla Siria -, cioè l'emirato del Qatar. Le milizie jihadiste che operano in Mali sono direttamente finanziate ed armate dal Qatar, che è presente massicciamente non solo con le sue sedicenti "Organizzazioni Non Governative", ma anche con aerei militari. Anche questa notizia è stata poco ufficializzata, ma in Francia è ormai di dominio pubblico. Il Qatar svolge la funzione di battistrada del colonialismo statunitense in Africa, e perciò non è solo con un piccolo, sebbene danaroso, emirato che ora la Francia se la deve vedere. Insomma, c'è lì un altro "alleato" pronto ad infilare pugnali nella schiena.
Non c'è da stupirsene, poiché da sempre il colonialismo si basa soprattutto sul fregare gli "alleati". Nel 1704 l'Inghilterra era "alleata" della Spagna in una delle tante guerre europee del periodo, ed approfittò di questa posizione per appropriarsi del territorio spagnolo di Gibilterra, usandolo come base di partenza per il suo plurisecolare dominio nel Mediterraneo. L'imperialismo funziona con questi paradossi, perciò si può vedere l'organismo internazionale nato per impedire le guerre, l'ONU, diventarne il massimo promotore; ovviamente per conto della NATO.
Durante l'aggressione della NATO alla Libia del 2011, il Paese più bidoNATO di tutti è stato, come è noto, l'Italia. Il corriere del pacco fu il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che impose l'intervento italiano in guerra ad un governo e ad un parlamento più che riluttanti. Le sue motivazioni ufficiali per l'aggressione ricalcarono in pieno la propaganda della NATO.
Di fronte alla rielezione di Napolitano, non ha quindi molto senso gridare al golpe ed alla fine della Repubblica, se il bersaglio della polemica rimane un'entità indistinta come la "vecchia politica", e si evita di chiamare le cose col loro nome. In questi mesi si è assistito ad una militarizzazione dell'informazione, che ha descritto gli eventi in modo tale da farne risultare non solo opportuno, ma inevitabile, l'esito finale. L'opinione pubblica è stata sempre più sospinta a ritenere giusta e desiderabile una tutela non solo delle istituzioni, ma della politica nel suo complesso. Il mezzo per ottenere questo risultato è stato, come al solito, quello di omettere fatti e dettagli fondamentali, magari facendo dimenticare anche quanto appena avvenuto. Così, quello stesso Bersani che poco più di un mese fa aveva conquistato, senza particolari patemi d'animo, al proprio partito le cariche di presidente del Senato e di presidente della Camera, è stato rappresentato dai media come un inetto totale. I commentatori più autorevoli non si sono fatti scrupolo di porre come desiderabile alternativa alla mediocrità di Bersani, un totale nullità come Matteo Renzi.
Il fantoccio-Renzi serviva a coprire le losche manovre della vera alternativa a Bersani, cioè il suo vice Enrico Letta. Come già Giuliano Amato, vice di Craxi, anche Letta non soltanto non ha seguito il suo capo nella caduta, ma addirittura vi costruisce sopra le proprie fortune. Per uno strano caso, lo spauracchio di un incarico per la formazione del governo a Giuliano Amato (l'uomo delle mani nei conti correnti, e l'inventore dell'ICI), è servito a far accogliere con un sospiro di sollievo all'opinione pubblica l'incarico a Letta. Il fatto che Letta abbia avuto bisogno di questa operazione di promozione, attraverso il confronto con l'odiatissimo Amato, significa che i mandanti/protettori di Letta non fanno molto conto sul suo carisma personale e sulla sua autonoma capacità di attrarre consensi. Insomma, il viscido Letta deve quasi tutto a qualcuno più viscido di lui.
Per fortuna, almeno il direttore de "Il Fatto Quotidiano", Antonio Padellaro, si è fatto venire qualche sospetto sul modo in cui Napolitano aveva gestito la questione della formazione del nuovo governo, con quel mezzo incarico a Bersani, poi immediatamente delegittimato dalla istituzione della commissione dei "saggi", che costituiva una prova generale delle "larghe intese".
In effetti, la burocratica mediocrità di Bersani si stava rivelando più che sufficiente a mettere in crisi la compattezza del Movimento 5 Stelle, ed è stata invece la presa di posizione di Napolitano sulla necessità delle "larghe intese" a mettere definitivamente fuori gioco la tattica di "scouting" dello stesso Bersani. Questi ha dimostrato ancora una volta di non possedere né la grinta, né la paranoia, del leader dei momenti difficili, perciò si è umilmente inchinato ai diktat che provenivano dall'alto, prestandosi senza proteste ad ogni agguato e ad ogni figuraccia. Martedì scorso anche la direzione del PD lo ha seguito disciplinatamente nella cerimonia del calo di brache; ma, in quell'organismo direttivo, molti avevano già lavorato contro Bersani persino durante le elezioni; e probabilmente il mancato pieno di voti da parte di Bersani era stato dovuto proprio al tradimento di alcuni capi-clientela elettorale del PD. Nelle recenti elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia, si è potuto riscontrare invece che le clientele elettorali del PD sono tornate all'ovile.
Non si poteva certo facilmente prevedere che il PD delegittimasse platealmente se stesso negando, con oltre cento parlamentari, il voto al proprio fondatore, Prodi; ma la sua elezione avrebbe ostacolato proprio quelle "larghe intese" volute da Napolitano, il quale è apparso perciò chiaramente come parte interessata in tutta la vicenda dell'elezione del nuovo presidente. Quindi Napolitano non può vantare nessuna credibilità nel presentarsi come il salvatore della patria che avrebbe accettato il sacrificio di ricandidarsi; e solo una meticolosa propaganda ufficiale ha potuto avallare una tale mistificazione.
Risulta scontato che in questa circostanza anche Napolitano non ha potuto giocare soltanto sulla propria perfidia personale, ma soprattutto sulle protezioni e le coperture derivanti dal suo ormai consolidato ruolo di garante del colonialismo NATO in Italia. Chi lo ha ribattezzato "NATOlitano" ha colto l'essenza della sua attuale missione.
Non è quindi un caso che in tutte e tre le "cadute" di Prodi sia risultato evidente lo zampino statunitense. Nel '98 l'imminenza della guerra in Kosovo rese indispensabile la formazione di un nuovo governo affidato allo yes-man D'Alema. Nel 2008 vi fu addirittura un diretto intervento della CIA per influenzare il ministro Mastella; circostanza ammessa anche dall'interessato.
Nel caso attuale, pochi giorni prima della votazione su Prodi, erano state fatte trapelare le notizie - riportate anche da "L'Espresso" - a proposito delle rivelazioni di Wikileaks su quanto lo stesso Prodi risultasse sgradito agli USA; e non certo per la sua disobbedienza, ma per la sua lentezza ad obbedire. E proprio qui sta il punto. Anche la politica più asservita richiede mediazioni lente, mentre il crescente attivismo militare della NATO non tollera pause o mediazioni.
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