Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Oltre che per le solite banalità, il cosiddetto Piano Colao si caratterizza per aver ripresentato la proposta di limitazione alla circolazione del contante. Osservatori che si occupano da anni della questione, come Beppe Scienza, hanno notato che Vittorio Colao ha conferito alla misura della limitazione del contante una radicalità che supera persino i desiderata delle banche.
In un contesto economico in cui la prospettiva pare quella di un avvitamento recessivo, qualsiasi ostacolo ai piccoli scambi apparirebbe decisamente fuori luogo. In realtà non lo è se si riconosce che l’obbiettivo, non tanto di Colao ma di chi lo ha messo lì, sia appunto quello di favorire la spirale deflazionistica. L’abolizione del contante è uno dei cavalli di battaglia del politicorretto, poiché, senza alcun riscontro empirico, essa è spacciata come una misura contro l’evasione fiscale. Si tratta di un ulteriore esempio della saldatura storica tra la retorica falsamente di sinistra con gli interessi della lobby dei creditori, che teme più della peste una ripresa della produzione e della domanda, con le ovvie conseguenze inflazionistiche che andrebbero ad intaccare il valore dei crediti. Tra l’altro l’esperienza sul denaro digitale, confermata dal recente caso finlandese, indica che l’uso della carta di credito stimola l’indebitamento dei singoli e delle famiglie; ulteriori debiti privati che andrebbero a pesare sull’attuale deflazione da debiti.
Come personaggio Colao appare “fuori luogo” quanto le sue proposte, dato che il manager di un’impresa privata non si pone in un’ottica macroeconomica ma esclusivamente dal punto di vista dei suoi azionisti. Scegliendo Colao, il governo Conte ha compiuto perciò l’ennesima operazione di auto-delegittimazione della politica avallando il mantra secondo cui un Paese deve essere gestito come un’azienda. L’ex manager di Vodafone in questa circostanza non ha dalla sua neppure il consueto argomento del “ce lo chiede l’Europa”, semmai il contrario, vista la passione della Germania per il contante. Si tratta di un dettaglio che viene messo in evidenza da tempo da parte di osservatori indipendenti ma che non trova una sponda nella grancassa mediatica. La Germania e la sua leggendaria avarizia rimangono comunque il grande alibi mitologico della lobby della deflazione, che invece ha le sue roccaforti anche in un Paese come l’Italia, nei fatti molto più avaro della stessa Germania. Un’Italia avara ovviamente verso i suoi cittadini, mentre i soldi da versare al bilancio europeo o al MES si trovano sempre. Ma si tratta di soldi ben spesi perché sono sottratti alla spesa pubblica interna.
I miti della razza ariana non passano di moda e trovano sempre nuove declinazioni. In questi giorni si è arrivati a spiegare la limitata diffusione del Covid in un Paese come la Repubblica Ceca con i legami del suo popolo con la razza germanica. La mitologia razziale conserva un grande fascino anche in epoca di politicorretto e proprio a causa di esso e della sua ambiguità. La ricerca di modelli ideali a cui ispirare i propri progetti di palingenesi morale infatti si presta benissimo a suggestioni razzistiche, per quanto mascherate con un’opportuna retorica.
Intanto negli Stati Uniti le principali multinazionali germaniche continuano ad incappare nello spremiagrumi locale. Dopo Deutsche Bank e Volkswagen adesso sta toccando a Bayer. Il colosso farmaceutico tedesco ha dovuto versare quasi undici miliardi di dollari a titolo conciliativo per evitare cause in conseguenza degli avvelenamenti da parte di Monsanto con il suo erbicida glifosato. In molti hanno notato che negli USA azioni legali tenute in frigo per anni, improvvisamente sono state riattivate non appena Monsanto è stata acquisita da una multinazionale straniera come Bayer.
Nella fiaba mediatica nostrana la Merkel e i suoi colleghi di governo passano da padreterni e fulmini di guerra, ma nella vicenda Bayer-Monsanto si sono dimostrati degli sprovveduti, omettendo ogni vigilanza e plaudendo acriticamente ad un “affare” che tale non era. Talmente sprovveduti da credere che la furbizia consista nell’agire con slealtà e malafede. Nel dicembre del 2017, mentre il governo tedesco vietava il glifosato in Germania, lo imponeva al resto dell’Unione Europea per altri cinque anni, proprio per rendere conveniente l’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer, dato che l’accordo tra le due multinazionali si stava concludendo in quei giorni. Con l’acquisto di Monsanto, la Germania è cascata nella tipica truffa all’americana, la cui tecnica (illustrata nel film del 1973 “La Stangata”) consiste appunto nel far credere al truffato di essere lui il truffatore. Una bella figuraccia anche per la UE ora che Bayer con il suo patteggiamento ha di fatto dovuto ammettere la pericolosità dell’erbicida.
La Germania è da anni sotto tiro da parte degli USA, soprattutto a causa del nuovo gasdotto Nord Stream 2 che dovrebbe collegarla ulteriormente sul piano energetico alla Russia. I pochi chilometri che rimangono per completare l’opera saranno probabilmente un calvario irto di ulteriori infortuni per le multinazionali tedesche e adesso si prepara anche un pacchetto di altre sanzioni per le aziende coinvolte nel progetto; sanzioni che non è solo il cialtrone Trump a promuovere.
Stranamente questi gasdotti della discordia tra USA e Germania, hanno rappresentato il fattore, non unico ma decisivo, per la vittoria occidentale nella guerra fredda. Fu proprio la prospettiva di poter vendere milioni di metri cubi di gas alla Germania, che indusse gli affaristi della multinazionale russa Gazprom, a liquidare definitivamente l’Unione Sovietica ed il comunismo. Le date non sono casuali: Gazprom fu fondata nell’agosto del 1989 ed il Muro di Berlino cadde nel novembre dello stesso anno.
Nonostante i media italiani non provino a nascondere queste disavventure tedesche prese singolarmente, la mitologia germanica resta intatta, arrivando a descrivere una Merkel finalmente redenta e divenuta provvida e materna nei confronti dell’Italia. Tutto un apparato fiabesco in funzione della sponda estera, vera o presunta, che la nostrana lobby della deflazione ritiene necessaria per coprire i suoi interessi.
Ringraziamo il compagno Claudio Mazzolani per la collaborazione.
Global Progress, un centro studi con sede a Washington, legato a sua volta ad una fondazione dagli oscuri finanziamenti, ha pubblicato un “paper”, un documento, su quei leader “progressisti” che costituirebbero un’alternativa all’offensiva cosiddetta “populista”. Tra questi “leader”, o presunti tali, c’è Emmanuel Macron ma anche personaggi già decotti come Matteo Renzi. L’etichetta che viene usata per accomunarli è quella di “insurgents”, cioè ribelli, in base allo schema narrativo occidentalista che ci rappresenta il potere vigente, rigidamente oligarchico con una mobilità sociale verso l’alto azzerata, come se fosse invece “dinamico” e sempre in bilico.
Il messaggio ambiguo lanciato da Global Progress consiste infatti nel suggerire che debba svilupparsi una “resistenza” dei progressisti contro l’avanzata di un fantasmatico nemico interno, cioè il populismo. Allo stesso modo in cui rimane vaga nel documento la nozione di populismo, rimangono del tutto incerte e fumose le linee di quel “progressismo” che dovrebbe contrastare i presunti populisti, cioè personaggi minacciosi come Matteo Salvini, che il suo governo se lo è fatto cadere da solo.
L’idea di un Occidente sotto assedio da parte sia di nemici esterni, come Russia, Cina e Iran, sia da parte del nemico interno del populismo, è alla base di un libro del novembre dello scorso anno, scritto dal giornalista Maurizio Molinari, diventato da qualche settimana nuovo direttore del quotidiano “la Repubblica”. La parte “analitica” del libro si accentra sulla descrizione dell’avvento di una nuova guerra fredda, ed è quindi una chiamata alle armi dei guerrafondai occidentalisti puri e duri contro nemici irriducibili che esibiscono i propri propositi malvagi. La Russia e l’Iran pretenderebbero infatti di offrire di venderci il loro petrolio e il loro gas, mentre la Cina vorrebbe addirittura investire in infrastrutture nei Paesi europei. Solo pazzi criminali che aspirano al dominio mondiale oserebbero avanzare proposte così mostruose. Certo, se Russia e Iran si rifiutassero di venderci gas e petrolio e la Cina non investisse da noi i suoi capitali, ciò proverebbe ugualmente i loro intenti criminali.
La parte “propositiva” del libro di Molinari ricalca la consueta retorica “animabellista” dei diritti e di uno sviluppo economico più umano che non si faccia guidare dal criterio numerico del PIL, quindi rappresenta un appello ai politicorretti più rigorosi, da abbindolare con la prospettiva di uno sviluppo economico, che però non deve essere uno sviluppo economico ma qualcos’altro, che non si sa bene cosa sia. Magari questo oggetto misterioso è la stagnazione cronica ma non lo si deve mai ammettere apertamente.
Quest’Europa che sarebbe a rischio di imminente invasione russo-cinese, può infatti discutere all’infinito di crescita e delle sue modalità più o meno politicorrette; quello che è certo è che comunque l’Europa debba rimanere in stagnazione, almeno a giudicare dalla sua politica dei debiti pubblici. Se gli Stati europei emettono titoli del Tesoro trentennali a tasso fisso, è ovvio che si formi una lobby dei creditori interessata a che non vi sia la minima inflazione che possa intaccare il valore degli interessi che riscuotono; e l’unico modo di garantirsi contro l’inflazione è impedire la crescita economica. Col pretesto dell’emergenza Covid migliaia di attività commerciali e industriali sono state distrutte e la persistenza delle misure preventive contro la presunta pandemia ne impedirà la rinascita. Ciò ha permesso alle multinazionali del digitale di aprirsi nuove quote di mercato ma comunque non potrà essere ripristinato lo stesso volume di scambi. Ciò però potrebbe non bastare per garantirsi la deflazione per i prossimi decenni.
La finanza ed il militarismo hanno un interesse comune: tenere vivo quel clima di tensione internazionale, contrassegnato da sanzioni economiche, che impedisca uno sviluppo delle relazioni commerciali con il gigante energetico russo ed il gigante industriale cinese. La saldatura tra la finanza e il militarismo, tra la lobby della deflazione e l’enemy business della NATO, è l’ovvia conseguenza di tutto ciò.
La convergenza di interessi tra business finanziario e business militare viene ovviamente rappresentata in modo “dinamico”, secondo i canoni perennemente allarmistici della narrativa occidentalista, come se la NATO fosse a rischio di sopravvivenza e domani mattina potesse non esserci più. Un giornalista ansioso e indignato chiede al segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, cosa ne pensi del terribile proposito di Trump di ritirare migliaia di soldati dalla Germania. Stoltenberg risponde con espressione grave, ma non riesce a nascondere che in effetti di questo “ritiro” non sono stati decisi né tempi né modalità: insomma, i soliti annunci a vuoto di cui è specialista il Cialtrone della Casa Bianca.
Del resto Trump è un pagliaccio messo lì apposta per fingere di “dinamizzare” una situazione in cui in realtà tutto è già stabilito. Una bolla oligarchica sradicata e inattaccabile, che distribuisce sempre meno reddito, non può fare a meno di psicodrammatizzare con falsi bersagli la vicenda politica in modo da allestire un finto dibattito ed un’altrettanto finta partecipazione delle masse, i cui esiti pratici sono comunque scontati. Nell’intervista Stoltenberg ci ammonisce infatti sull’importanza della NATO, il solo argine contro la minaccia dei gasdotti russi e delle Vie della Seta cinesi, cioè la sola istituzione che possa garantirci la stagnazione secolare e la deflazione da debiti.
A proposito di debiti, l’Argentina è nuovamente a rischio di default e non può pagare gli interessi sul proprio debito ai grandi investitori come Blackrock. Per i creditori è preferibile però il default dei propri debitori che una crescita mondiale che rischi di creare inflazione. Tanto ci pensa il Fondo Monetario Internazionale a “mediare”. In definitiva il default è un business. Più sono alti i rischi di default di uno Stato, più elevati saranno gli interessi che dovrà pagare per avere altri prestiti.
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