Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Nell’occasione della manovra finanziaria il governo Conte ha avuto l’onore di trovarsi contro una mobilitazione parlamentare e mediatica senza precedenti. Si è trattato della classica tempesta in un bicchier d’acqua, vista l’entità delle cifre effettivamente spostate. Senza questa mobilitazione il re sarebbe rimasto nudo, poiché si sarebbe dovuto semplicemente prendere atto che si era di fronte all’ennesima manovra dettata dalla lobby della deflazione, con un avanzo primario (cioè con un’immissione di liquidità nel sistema molto minore del prelievo fiscale) e con un deficit di bilancio al 2,04 che non avrebbe comunque consentito di fare granché.
Una delle critiche più pretestuose e inconsistenti rivolte al governo, è stata infatti quella di aver puntato sull’assistenzialismo e non sui mitici “investimenti pubblici”. In realtà anche un deficit al 3% tutto destinato a investimenti, non avrebbe rappresentato quella soglia in grado di smuovere la palude della deflazione. Il punto debole degli investimenti pubblici è che una minima parte di essi arriva effettivamente allo scopo. Questa debolezza ha poco a che vedere con la consueta rappresentazione mediatica della “corruzione” e degli “sprechi”.
Persino l’esperienza del Paese-modello, la Germania, dimostra che gli investimenti pubblici si risolvono in gran parte in un travaso di fondi pubblici ai privati che, a loro volta, li reindirizzano ad investimenti finanziari, quindi non vi è nessun effetto significativo sulla domanda interna e nessun “moltiplicatore”. Non esiste solo il riciclaggio del denaro sporco, ma anche il riciclaggio del denaro pubblico. Attraverso i costi artificiosamente gonfiati, solo una minima parte dell’investimento arriva all’opera che era lo scopo dichiarato. Ciò può apparire strano solo se si rimane acriticamente legati a quella astratta distinzione tra denaro pubblico e capitale privato, che nella realtà trova puntualmente smentite.
Gli investimenti pubblici possono avere effetti rilevanti sul rilancio dell’economia soltanto se sono di entità tale da scontare l’effetto-prelievo da parte del settore privato. In alternativa per aggirare questo “inconveniente” (ammesso che sia percepito come tale), occorrerebbe che la mano pubblica agisse direttamente, senza seguire la via dell’appalto alle aziende private. Solo in quel caso si assisterebbe esclusivamente ai cari vecchi “sprechi” e non ad un riciclaggio di denaro in grande stile dal pubblico al privato. Ma una “mano pubblica” completamente esente e immune dal lobbismo privato rischia di risultare più che un’astrazione, addirittura un’illusione. La stessa esistenza del privato rende il pubblico una mera mistificazione, poiché il privatizzatore è proprio lo Stato o ciò che si fa chiamare tale.
Rimanendo in una visione realistica, la critica “da sinistra” che si poteva muovere al governo Conte non era quella dell’insufficienza degli investimenti pubblici. A differenza dell’assistenzialismo per ricchi (mai nominato ma sempre praticato), l’assistenzialismo per i poveri è uno spauracchio mediatico che si è realizzato troppo raramente; e sarebbe invece il caso di attuarlo in modo continuativo per saggiarne gli effetti sulla domanda interna in funzione anti-deflazionistica.
Il punto vero è che il cosiddetto “reddito di cittadinanza” (in realtà un sussidio di disoccupazione un po’ allargato) si annuncia con tali e tante ambiguità da far dubitare della reale volontà di voltare pagina. Nietzsche diceva che i poveri non hanno alcuna superiorità morale sui ricchi. Verissimo, ma non è vero neppure il contrario. Accade invece che quando si tratta di dare finanziamenti pubblici alle imprese private, nessuno si preoccupa della fine che veramente faranno quei soldi; mentre, al contrario, ogni ipotesi di assistenzialismo per poveri immediatamente suscita timori di abusi, perché si sa che i poveri sono tutti “furbetti” e “falsinvalidi”. Ogni ipotesi di assistenzialismo per poveri è motivo di allarme, mentre l’assistenzialismo per ricchi viene fatto tranquillamente rientrare negli “incentivi all’economia”, nonostante l’evidenza contraria. Qui si riscontrano i limiti ideologici del sovranismo e dell’onestismo, con la loro visione di un idillio interclassista all’ombra di un improbabile “interesse nazionale” e di un ancora più improbabile “legalità”.
Un modo serio di affrontare la questione dei sussidi di disoccupazione sarebbe stato quello di mettere preventivamente in conto i possibili abusi, in considerazione del fatto che il loro costo sarebbe comunque infinitamente minore di un sistema di controllo. I tempi lunghi, l’eccesso di mediazione e di controlli comportano infatti il rischio che i soldi non arrivino mai ai disoccupati.
Già attualmente i centri regionali per l’impiego appaltano il servizio ad aziende private o utilizzano lavoratori esterni di aziende private “accreditate”. La consolazione per il fatto che almeno i centri per l’impiego indirettamente assumano dei lavoratori, è molto temperata dalla circostanza che si tratta rigorosamente di lavoro precario. Con l’introduzione del cosiddetto reddito di cittadinanza, i centri per l’impiego saranno “aggrediti” da milioni di richiedenti e quindi la scorciatoia ovvia potrebbe essere quella di privatizzare ancora di più il servizio. Un tentativo di assistenzialismo per poveri si risolverebbe così nel solito assistenzialismo per ricchi.
Prima ancora che vi fosse la “insurrezione” dei sindaci contro il Decreto Salvini, vi era già stata l’iniziativa del segretario del PD, Maurizio Martina: il lancio di un referendum abrogativo in coincidenza con i tavoli delle elezioni primarie del partito. Ad una prima analisi, l’idea di Martina sembra ripercorrere i consueti sentieri suicidi di marca PD, con la prospettiva più che certa di regalare a Salvini una vittoria referendaria con un 80% di percentuale.
Salvini ha saputo sfruttare sul piano elettorale la psicosi migratoria, ma non si può dire che sia stato lui a crearla, dato che non era certo la Lega a controllare i media. Nell’alimentare la psicosi, il PD ha fatto invece egregiamente la sua parte, proponendo una narrazione sulla migrazione basata su un assunto tanto apocalittico quanto paradossale nelle sue conclusioni: masse sterminate di migranti scappano dalla miseria e dalle guerre invadendo l’Occidente, ma tu non devi essere razzista. A periferie pauperizzate dall’austerità si prospetta quindi sia la concorrenza di immigrati più poveri di loro, sia un esame di “animabellismo” per dimostrare di essere immuni da sentimenti xenofobi. Se almeno questo “animabellismo” fosse coerente e consequenziale, ci si potrebbe anche regolare; ma il PD da un lato predica la sottomissione ai “Mercati” in nome della legge del più forte, poi dall’altro lato predica l’accoglienza dei migranti in nome del rispetto del più debole. È un notevole stress propagandistico per le masse povere dell’Europa e Salvini dovrebbe ringraziare per il bel regalo elettorale.
In realtà il fenomeno migratorio moderno è fondato su un business finanziario globale legato ai prestiti ai migranti (i “migration loans”) ed ai circa cinquecento miliardi annui di rimesse dei migranti verso i loro Paesi di origine. Su queste umili rimesse fiorisce non solo il business delle provvigioni per i trasferimenti da un paese all’altro, ma anche una messe di prodotti finanziari derivati, come le famigerate “cartolarizzazioni”. Il business è stato curato e gestito, sin dai suoi inizi ed in tutti i suoi dettagli, dalla Banca Mondiale, quindi non c’è assolutamente nulla di spontaneo.
La condizione essenziale del business è perciò che il legami dei migranti con la madre patria non siano mai recisi, altrimenti non soltanto cesserebbero le rimesse, ma si priverebbero i miseri guadagni dei migranti dell’effetto moltiplicatore del potere d’acquisto dovuto al cambio in valute più deboli; quindi i migranti non sarebbero più in grado di ripagare gli interessi sui debiti. Si tratta di debiti contratti non solo con le “mafie” locali, ma soprattutto con “rispettabilissime” ONG, a loro volta finanziate da grandi gruppi bancari.
Il business migratorio non prevede, anzi esclude, l’integrazione perciò invasione e sostituzione di popolazione sono fantasmi che servono a coprire e mistificare la dimensione del circuito di sfruttamento finanziario legato alla migrazione e ad evitare che ciò sia contrastato nel solo modo utile, cioè attraverso un controllo/contrasto nei confronti dei movimenti di capitali. Per disincentivare gli organizzatori della migrazione basterebbe nazionalizzare il meccanismo delle rimesse dei migranti, affidandolo ad un’agenzia pubblica che facesse pervenire direttamente le rimesse alle famiglie dei migranti. Sarebbe la fine del business delle provvigioni ed anche delle cartolarizzazioni che fioriscono nel passaggio del denaro dei migranti attraverso le banche.
Nell’opera di mistificazione atta a scongiurare misure contrarie alla mobilità dei capitali, si distingue il finanziere e “filantropo” George Soros. Con disinvolta malafede giornalistica i media dicono che Soros viene associato a “teorie del complotto”. Al contrario, le destre nazionaliste accusano Soros esattamente per ciò che lui dichiara di fare e per gli stessi identici motivi per i quali il “prestigioso” quotidiano “Financial Times” lo ha nominato nel 2018 ”uomo dell’anno”.
Le destre nazionaliste non peccano quindi di complottismo, semmai di credulità, poiché si bevono tutte le fiabe ufficiali che circondano questo personaggio da fumetti di Batman, a cominciare da quella secondo cui Soros investirebbe il proprio denaro nei suoi progetti. Soros è un agente esterno della NATO e della Banca Mondiale e, come tale, si avvantaggia sia di coperture che di fonti di finanziamento. Soros è pienamente e direttamente coinvolto nel business finanziario legato alla migrazione, ma il suo ruolo non si ferma affatto qui. La sua funzione provocatoria consiste appunto nel far da esca alle destre nazionaliste, suggerendo implicitamente col suo fantasma della “società aperta” delle false strategie di contrasto alla migrazione, basate sui “muri” e sulla difesa dei “sacri confini”, cioè sul controllo del movimento dei corpi, invece che sul controllo del movimento dei capitali.
|