Commentario
LA RIVOLTA FISCALE NON DIFENDE IL SALARIO
Da un po' di tempo gli opinionisti borghesi esibiscono una dolente
preoccupazione per i bassi livelli del salario italiano, e si
interrogano gravemente sui modi per portarlo ad un livello "europeo".
La strada unanimemente proposta dagli opinionisti borghesi è
quella della defiscalizzazione del salario: visto che la busta
paga è decurtata per oltre la metà da prelievi fiscali e
contributivi, ecco prospettata per i lavoratori la nuova frontiera
dell'adeguamento salariale.
Non è che questa proposta abbia ottenuto grande
popolarità, persino fra i lavoratori più ostili a
quella che effettivamente è una rapina fiscale sulla busta paga.
Intuitivamente si comprende che aumenti salariali così ottenuti
sarebbero molto effimeri: nel giro di due o tre anni l'inflazione e la
concertazione governo-sindacati riporterebbero il salario reale ai
livelli attuali, perciò la defiscalizzazione della busta paga si
risolverebbe nell'ennesimo regalo al padronato. Quando si cerca di
conquistare i poveri alla rivolta antifiscale, in realtà
è alla diminuzione delle tasse dei ricchi che si sta mirando.
In tutta questa serie di "dottrine economiche" che si sono affacciate
negli ultimi anni non si è scorta mai alcuna coerenza, ed
un'unica costante è stata riconoscibile, quella di favorire
sempre e comunque il ricco a scapito del più povero.
Non è vero che il "neoliberismo", la "deregulation", la
"globalizzazione" abbiano diminuito l'intervento statale e aperto i
"mercati", poiché quando si è trattato di favorire i ceti
dominanti, non ci si è fatto scrupolo di ricorrere alla spesa
pubblica, al protezionismo, alle sanzioni. Nonostante la suggestione di
questi slogan, non si è potuto fare a meno di notare come negli
ultimi decenni, nella sua crescente ansia di depredare i più
poveri, anche il capitalismo sia divenuto sempre più straccione,
invadendo settori, come la pubblica amministrazione, che sarebbero
stati ritenuti trascurabili sino a qualche decennio fa, nell'epoca
dell'industrialismo rampante.
Tutto ciò non è un effetto della "ideologia" liberistica.
Gli slogan del liberismo sono serviti a coprire e giustificare gli
effetti della scelta attuata dalla borghesia mondiale oltre trent'anni
fa, cioè il ricorso alla deindustrializzazione allo scopo di
demolire la resistenza delle concentrazioni operaie. La
deindustrializzazione è stata a sua volta mascherata con gli
slogan del "post-industriale" e della "società complessa".
La preoccupazione della borghesia di mantenere il potere è stata
alla base di tutte le scelte degli ultimi anni, anche se ciò
comportava un regresso economico, e la propaganda ufficiale si è
incaricata di dare al tutto un falso alone di progettualità e di
orizzonte avveniristico. Sarebbe assurdo, ad esempio, considerare i
"neocons" americani come esponenti di un pensiero politico, dato che la
loro funzione effettiva è quella di tecnici della propaganda,
cioè di agenti pubblicitari.
Con tecniche pubblicitarie, i gruppi dominanti creano delle
realtà virtuali che magari hanno pochi mesi o poche settimane di
vita, giusto il tempo per raggiungere i loro obiettivi affaristici e
colonialistici del momento.
Quindi, se da un lato è molto improbabile che i lavoratori
effettivamente abbocchino all'esca della rivolta fiscale, dall'altro
lato occorre tenere conto di queste campagne mediatiche che fabbricano
ogni giorno l'illusione di eventi storici e di mutamenti epocali. Nel
1980 a Torino la Marcia dei Quarantamila diede l'illusione
dell'affermazione di inesistenti "ceti emergenti". In queste settimane
i nostri media sono passati con la massima disinvoltura dalla
descrizione dell'invasione delle orde della "antipolitica", alla
celebrazione dei trionfi veltroniani.
Se nei prossimi giorni i media ci narreranno le vicende di una rivolta
antifiscale fra i lavoratori, occorrerà perciò essere
molto prudenti e diffidenti verso questa ennesima svolta epocale.
18 ottobre 2007