Commentario
ANCHE PER LA BIRMANIA SI CANTA "FACCETTA NERA"
In base alle disposizioni partite dagli Stati Uniti, entro la prossima
settimana entreranno in vigore le sanzioni economiche dell'Unione
Europea contro la Birmania-Myanmar. Ovviamente queste sanzioni
servirebbero a colpire il tirannico governo birmano e a favorire la
transizione alla democrazia. Si ripropone ancora una volta lo storico
schema propagandistico del colonialismo, secondo il quale i nemici non
sarebbero mai i popoli, ma solo i loro malvagi governi. È vero
che le sanzioni economiche provocano denutrizione e malattie,
così come le guerre producono morti e macerie, però tutti
questi saranno presentati solo come spiacevoli effetti collaterali
della luminosa marcia per l'affermazione dei sacri valori
dell'Occidente.
Le urla di indignazione che si sono levate in questi giorni per le
notizie sulla repressione in Birmania, non si faranno più udire
perché le notizie sulle sofferenze del popolo birmano dovute
alle sanzioni verranno confinate nei rivoli collaterali
dell'informazione ufficiale, mentre ampio spazio sarà concesso
alla voce di "oppositori" del regime birmano, che si proclameranno
felici di ogni sofferenza che acceleri il passaggio alla democrazia.
Sembra di stare nell'Italia fascista ai tempi dell'aggressione
all'Etiopia, quando si cantava "Faccetta nera, bella abissina, aspetta
e spera che già l'ora si avvicina". L'Etiopia nel 1935 era
effettivamente uno Stato tirannico, feudale, schiavistico e tribale, ma
è molto improbabile che le donne etiopiche davvero gioissero
sotto i gas lanciati dall'aviazione italiana, aspettando e sperando di
essere liberate.
Eppure molti ne erano convinti, non soltanto in Italia, ma anche nel
resto del mondo. Quando la Società delle Nazioni (l'ONU di
allora) decretò le sanzioni contro l'Italia per l'aggressione
perpetrata nei confronti di un altro membro della stessa
Società, quelle sanzioni rimasero non applicate, a causa
dell'ondata di solidarietà internazionale di cui si giovò
Mussolini, in base all'argomento secondo cui non si poteva paragonare
un Paese di civiltà occidentale come l'Italia ad un regime
retrogrado ed oscurantistico come quello etiopico. A quei tempi infatti
il fascismo faceva ancora parte a tutti gli effetti della
civiltà occidentale, non era stato ancora nominato nemico di
comodo in funzione della colonizzazione dell'Europa da parte degli
Stati Uniti.
Nel 2003 Tony Blair, prima di andare ad aggredire l'Iraq, trovò
anche lui la sua "faccetta nera": una studentessa irachena venne
trionfalmente ricevuta a Downing Street, dove presentò al
governo inglese la supplica di correre a invadere l'Iraq per portarvi
la democrazia. Giuliano Ferrara, entusiasta, dedicò addirittura
un'intera trasmissione a quell'eroica ragazza, poi scomparsa dalle
cronache, e di cui non si sa neppure se fosse davvero irachena (come
del resto non si può giurare nemmeno sull'autenticità di
certi monaci buddisti che compaiono in questi giorni nei media).
Oggi gli iracheni hanno finalmente la democrazia, anche se non hanno
più acqua ed elettricità, dato che le loro risorse
petrolifere ed idriche sono state privatizzate a vantaggio di
società statunitensi. Del resto non si può depredare le
risorse di un Paese senza massacrarne il popolo: è un concetto
ovvio che non può non valere anche per la Birmania.
Da sempre però la giustificazione del colonialismo è
stata quella di combattere dei governi tirannici in nome della
civilizzazione dei popoli, e questa formula propagandistica ancora
funziona. Nel 1917, nel corso della prima guerra mondiale, il
presidente statunitense Wilson ebbe la geniale idea di applicare questo
slogan anche ad un Paese occidentale, la Germania. Convinse i Tedeschi
di non avercela con loro, ma solo con il loro cattivissimo Kaiser,
perciò sarebbe bastato alla Germania di liberarsi del tiranno
per essere riaccolta a braccia aperte nella famiglia umana. La
fregatura che presero i Tedeschi quando accettarono di arrendersi nel
1918, è ben nota, ma a distanza di novanta anni gli Usa possono
riproporre questa formula propagandistica pressoché inalterata e
con lo stesso successo.
Il presidente Wilson riuscì a farsi credere da tutti un puro
idealista, mentre di Bush si ammette che non sia uno stinco di santo e
persino che sia un poco di buono, ma ciò non basta a mettere in
dubbio la sua missione di salvezza. Insomma, ci si suggerisce che Bush
sarà anche un criminale, ma che comunque è uno strumento
provvidenziale di cui la Storia si serve per far trionfare i sacri
valori dell'Occidente.
L'Occidente perciò non è qualcosa di concreto con cui sia
possibile un confronto, ma è un concetto che funziona per
suggestione e conformismo, cioè una religione. Al contrario, in
base ad una valutazione realistica dell'umanità, Bush è
molto più pericoloso di un Saddam o di un Ahmadinejad, proprio
perché rischia molto meno. Il peggio che possa capitare a Bush
ed al suo entourage è di doversi ritirare a fare consulenze e
conferenze superpagate. Cosa rischia inoltre l'oligarchia statunitense
che sta seguendo Bush nel suo vortice di aggressioni e di debiti?
Quand'anche tutto dovesse andar male, gli oligarchi statunitensi non
avrebbero da temere invasioni o bombardamenti dato il loro isolamento
geografico, e quando i debiti sono davvero tanti non si rischia neppure
di doverli pagare sul serio.
11 ottobre 2007