Commentario
CHI PAGA I COSTI DELLA PRECARIZZAZIONE
Da settimane il dibattito politico ripropone l'emergenza pensioni,
mentre giornali e telegiornali danno uno spazio crescente a
comunicazioni di agenzie europee ed internazionali sulla urgenza di
affrontare la crisi previdenziale in Italia. Com'era prevedibile, la
recrudescenza della propaganda sulla necessità di una ulteriore
riforma delle pensioni ha avuto come immediato effetto pratico un
aumento delle domande di pensionamento, per il timore dei lavoratori di
incorrere nelle nuove normative, e ciò proprio mentre si parla
in astratto di un aumento dell'età pensionabile.
Che questo effetto sia voluto non è la solita ipotesi da
liquidare come dietrologica, dato che è confermato dalle
dichiarazioni del Ministro delle Riforme Nicolais, che ha dichiarato di
voler ridurre il personale della pubblica amministrazione anche tramite
incentivi al pensionamento anticipato. Quindi, non soltanto non viene
incentivato l'innalzamento dell'età pensionabile, ma è al
contrario il prepensionamento che viene favorito.
I conti pubblici ed i conti previdenziali non c'entrano nulla con le
continue minacce di riforma delle pensioni, poiché lo scopo
perseguito è quello di ridurre al massimo il lavoro stabile per
sostituirlo con lavoro precario o non sostituirlo affatto. Nel processo
di precarizzazione rientrano anche la propaganda sulla necessità
di inserire il merito e la valutazione nella gestione del lavoro. Si
tratta di un discorso astratto e demagogico che può facilmente
riscuotere il consenso da un'opinione pubblica ormai indottrinata da
decenni su questi temi.
In realtà è scontato che la valutazione può
facilmente diventare essa stessa - sia se condotta da organi interni
che affidata a organi esterni - un momento di potere clientelare se non
dichiara preventivamente le sue procedure e le sue garanzie. Gli
articoli che Pietro Ichino da tempo dedica a questa materia, si
ammantano di una retorica efficientistica, ma appena li si analizza
denotano il loro carattere di generici appelli moralistici.
Perciò anche questa propaganda non ha altro effetto
pratico che spaventare il personale, spingendo coloro che già
possono ad andare in pensione.
Questa linea, nell'ambito della pubblica amministrazione, si scontra
ancora con i limiti oggettivi imposti dall'organizzazione del lavoro,
mentre nel settore privato tutto ciò si è già
risolto in una accentuazione del processo di deindustrializzazione
iniziato più di trenta anni fa. È evidente che una
società divisa fra precari, pensionati e clandestini non ha
molte risorse per competere, ma in compenso può essere tenuta in
una condizione permanente di conflitto generazionale ed etnico. Questi
sono i lineamenti inconfondibili di un processo di colonizzazione, la
cui profondità e gravità sfugge a causa della cortina di
propaganda che l'avvolge. La propaganda ufficiale è riuscita
infatti ad annullare qualsiasi traccia di pensiero concreto.
In una visione astratta del capitalismo può apparire priva di
senso una ristrutturazione del lavoro che risulti così onerosa
per l'apparato previdenziale. Occorre uscire perciò dalle
analisi strettamente economicistiche per integrare il concetto di
capitalismo con quello di colonialismo. In una logica colonialistica
è perfettamente logico che i costi del processo di
colonizzazione vengano scaricati sullo stesso Paese colonizzato.
Il dissesto delle previdenza sociale non è quindi un evento
paventato, ma al contrario pianificato, è un costo necessario
fatto pagare all'Italia, per neutralizzare la stessa Italia come
concorrente e renderla una colonia commerciale degli Stati Uniti.
25 gennaio 2007