Commentario
PRECARIZZAZIONE E COLONIALISMO
Le dichiarazioni d'intenti rilasciate in questi giorni da vari
esponenti del governo Prodi sembrerebbero chiudere ogni
possibilità di rimettere la questione del superamento del
precariato al centro dell'attenzione. Un segnale negativo in tal senso
è anche la proposta di bloccare le assunzioni nella Scuola.
D'altra parte è ovvio che un governo appena insediato tenda ad
osservare quelli che sono i rituali di sottomissione alla gerarchia
internazionale, per non allarmare i "mercati" (nome in codice per
indicare le oligarchie). Nella sua posizione subordinata, l'Italia non
ha più da trent'anni il diritto di fare una politica economica,
perciò il governo deve occuparsi solo di "aggiustare i conti
pubblici", in base al percorso tracciato da quel simbolo della
sottomissione coloniale che è la cosiddetta "legge finanziaria".
Ma in base alle pressioni colonialistiche, anche l'attuale governo non
dovrebbe proprio esserci, perché avrebbe dovuto lasciare il
campo ad una coalizione centrista. Nel fallimento di questo progetto -
che pure era stato bene allestito sul piano propagandistico -, ha
certamente inciso la propensione di Berlusconi a dire sempre una
stronzata in più del necessario, ma non c'è stato
soltanto questo.
In questi mesi una parte del ceto politico e sindacale si trova ad
oscillare tra la sua consueta libidine di servilismo e l'esigenza di
non tagliare del tutto il ramo su cui è appollaiato. Riflesso di
tutto ciò è anche l'allentamento del dominio ideologico
capitalistico, per cui comincia a diffondersi la consapevolezza che la
precarizzazione del lavoro consegnerebbe l'economia italiana ad un
declino irreversibile.
La precarizzazione impedisce all'economia di un Paese di agire come un
sistema, bloccando - ad esempio - la mobilità territoriale
interna dei lavoratori più giovani. Oggi soltanto il sostegno di
una famiglia che abbia un reddito elevato può permettere ad
un giovane di trovare lavoro cambiando località, dato che i
contratti a tempo determinato non consentirebbero di affrontare un
trasferimento.
La precarizzazione corrisponde ad un modello economico basato sulle
manifatture e sul terziario più elementari, senza prospettive di
sviluppo tecnologico; un'economia da colonia, appunto. Ma il fatto che
la battaglia contro la precarizzazione sia una battaglia
anticolonialistica, non deve indurre a false conseguenze, ritenendo
erroneamente che la borghesia imprenditoriale possa dimostrarsi
sensibile al cosiddetto "interesse nazionale".
In realtà l'anticolonialismo è una battaglia di classe
dei lavoratori, mentre il mito interclassista dei "patti tra
produttori" è stato storicamente il veicolo di ingerenze
colonialistiche. La borghesia imprenditoriale si è sempre fatta
guidare solo dal suo odio di classe, giovandosi semmai a posteriori di
allentamenti della pressione colonialistica, come avvenne, ad
esempio, in Italia agli inizi del '900 durante i governi Giolitti.
Il vertice confindustriale attuale non è andato oltre
l'acquisizione che ormai Berlusconi era troppo compromettente per
l'immagine dell'Italia, perciò è disposta a tollerare un
governo di centrosinistra solo se questo si dispone come strumento
della sua ostilità di classe.
Anche una parte della destra sembrerebbe oggi aver scoperto
l'anticolonialismo e il cosiddetto "interesse nazionale", ma non
c'è da fidarsi. A ben guardare, la destra continua ad inseguire
miti come l'inesistente "identità europea", ed a dimostrarsi
sensibile ai suoi soliti "richiami della foresta": il razzismo e
l'antioperaismo.
L'attuale lotta dei lavoratori contro la precarizzazione può
trovare però dei momentanei avalli - non degli alleati -
all'interno del ceto politico e sindacale più dotato di istinto
di sopravvivenza. È questo - talora casuale - incunearsi nelle
contraddizioni del dominio, che ha anche consentito ai lavoratori, nel
corso della loro storia, di ottenere dei risultati, non la falsa
prospettiva di una collaborazione di classe.
L'attuale debolezza del governo - dovuta proprio alle eccessive
ingerenze colonialistiche - potrebbe perciò giocare a favore dei
lavoratori, dato che un governo più stabile non avrebbe
difficoltà ad identificarsi con la linea confindustriale.
Comidad, 29 giugno 2006